Tempo di uccidere di Ennio Flaiano Premio strega 1947

Come Dio Comanda di Niccolò Ammaniti vince il premio Strega di quest’anno, ma io voglio andare controcorrente e invece di parlare dell’ultimo parlerò del primo: Tempo di uccidere di Ennio Flaiano Premio strega 1947 il quale, nonostante i suoi 61 anni, trovo sia ancora molto attuale.

Dicono che Flaiano trovandosi nell’inverno del 1946 senza amici a Milano si sia chiuso in una camera d’albergo poco riscaldata e, con una coperta sulle spalle, avesse riempito fogli su fogli e avesse scritto “Tempo di uccidere” quel suo unico romanzo che gli fece vincere nel 1947 il suddetto premio.

Il romanzo porta in epigrafe un passo dell’Ecclesiaste III 3 (…tempo di uccidere e tempo di sanare; tempo di …) e narra la storia di un soldato impegnato nella campagna dell’Africa orientale italiana al tempo della guerra d’Etiopia (1935-36) .

A causa di un forte mal di denti il militare ha ottenuto un permesso di quattro giorni per lasciare il campo e andare alla ricerca di un dentista, ma il camion, su cui viaggia assieme ad un altro soldato, esce fuori strada e si ribalta. «Ero meravigliato di essere vivo, ma stanco di aspettare soccorsi». Il militare, che soffre per quel mal di denti, stanco di aspettare i soccorsi, lascia il compagno e decide di proseguire a piedi incamminandosi lungo una scorciatoia che gli è stata indicata da uno strano soldato. Qui ci sono due atteggiamenti opposti, da una parte chi, irragionevolmente, agisce e inizia un percorso che probabilmente sarà faticoso, e chi, lasciandosi guidare dalla ragione, aspetta tranquillo che ripassi un altro camion. E’ romanzo d’avventura ma, verosimilmente, è un romanzo che racconta un’avventura interiore. “Dove l’avevo visto quel giovane? Aveva una di quelle facce gentili, da operaio,… Il cielo mi guardi dall’insinuare il sospetto che egli sia più di una semplice comparsa…” Chi è il soldato che gli ha indicato la scorciatoia? Probabilmente un messaggero. La scorciatoia non è la strada maestra, sembra la più breve da percorrere ma spesso è la più pesante, la più tortuosa. La scorciatoia può rivelarsi un labirinto, un sistema di cammini ingannevoli e fuorvianti. Il Labirinto può essere il luogo della perdizione, dell’errore, del mistero e dell’avventura. Oppure una faticosa esperienza che conduce l’uomo al centro della propria realtà interiore, alla bestia che si nasconde dentro e che dobbiamo combattere. I sentieri della scorciatoia sono disseminati di carogne di muli della sussistenza in putrefazione, di corpi di soldati etiopi insepolti, il militare perde la mappa, gli si ferma l’orologio da polso che fa ripartire e che punta in un’ora a caso. Arriva in una pozza d’acqua nella quale una donna sta facendo un bagno. Il militare in patria ha una donna che ama e che lo aspetta, ha nella tasca una sua lettera che legge e rilegge per consolarsi; ma la donna etiope è lì, nuda, che si bagna, ha la pelle più chiara delle etiopi e gli occhi verdi, i suoi capelli, che tiene nascosti sotto un turbante bianco, non hanno le tipiche treccine. La donna, che dice di chiamarsi Mariam, non conosce il tempo, la vegetazione non conosce il tempo, lì tutto è fermo. I due trascorrono insieme alcuni giorni d’appassionato amore, la donna vuole che lui le regali l’orologio che porta al polso, che segna il tempo. Quando ci si ferma a considerare le ombre, bisogna mirare bene se si vuole annientare il male-ombra-coccodrillo. Accade che una notte l’uomo sente la presenza di un animale, forse un coccodrillo, così spara, ma uno dei proiettili rimbalza e colpisce al ventre la donna. Il coccodrillo non può che rappresentare la bestia, il male. Lui presta inutilmente alla donna ferita i primi soccorsi ma poi, come si fa con i cavalli e con i muli feriti, la finisce con un colpo alla testa e ne nasconde il cadavere dentro una buca che ricopre, con estrema freddezza, con alcune pietre. Dopo avere ispezionato la zona, per eliminare ogni traccia della sua presenza, e dopo essersi fasciato la mano ferita con una benda ricavata dal turbante bianco della donna, l’uomo si riprende l’orologio e continua il suo viaggio, durante il quale si imbatte in una strana processione formata da un anziano ascaro, Johannes, da un paio di uomini e da bambini che ballano e saltellano, fra cui Elias che in seguito gli si mette alle costole. Dopo una serie di peripezie il nostro torna al villaggio, lì incontra il vecchio e il bambino, unici superstiti di una strage perpetrata nell’altipiano. Johannes gli fa capire che Elias è il fratello di Mariam. Accadono una serie di avvenimenti secondari, che qui non racconto, ma non posso non dire di quell’intenso profumo di fiori (lungamente marciti) che lo perseguita da quando ha ucciso l’etiope. Quando il protagonista si rende conto che la sua ferita non guarisce, che ha gli stessi sintomi che hanno i lebbrosi, quando viene a sapere che le lebbrose portano come segno di distinzione un turbante bianco, lo stesso che portano i sacerdoti, si rende conto di essere stato contagiato da Mariam ed è preso dal panico, sa che non potrà più farsi vedere dalla donna che lo aspetta in patria, così invece di imbarcarsi sulla nave che lo porterà a casa ripercorre la scorciatoia torna sull’altipiano e si stabilisce nel villaggio abitato ormai solo dal vecchio. Lì i due vivono accanto, il militare ha finito i viveri e mangia i cibi del vecchio ascaro, ha finito le sigarette e se le fa usando come cartina una pagina della Bibbia. Quando Elias, da lui tiranneggiato nel villaggio, torna a trovarli, egli gli dà incarico di procurargli le sigarette, il bambino torna dopo quattro giorni con i soldati. Il protagonista crede di essere stato tradito, ma non è così, i soldati sono venuti perché attirati da un colpo di pistola. Durante la sua presenza al villaggio si chiarisce tutto: il vecchio sa del delitto, sa dove la figlia è stata sepolta (ha lavorato durante il soggiorno del protagonista ad una copertura di legno) mostra al militare la grande capanna rotonda, accanto alla pozza d’acqua, dove viveva la figlia. Alle pareti c’è un disegno sacro, un angelo che uccide un drago raffigurato come un coccodrillo. Alla fine di un percorso fatto di violenza e tensioni, il vecchio gli guarisce le piaghe della mano con un impiastro: non si trattava di lebbra, la figlia era una sacerdotessa e non una lebbrosa. «L’aver ucciso Mariam ora mi appariva un delitto indispensabile. Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso». Dopo quaranta giorni passati nell’altopiano il protagonista torna al campo. La fatalità che porta la ragazza alla morte è la rappresentazione del clima di violenza e di ferocia che si respirava in Africa di cui i soldati erano poco consapevoli, la piaga sulla mano è il segno di una coscienza malata. Il bambino Elias che arriva nella boscaglia assieme ai soldati fa venire in mente Giuda che tradì il Maestro, ma il bambino non aveva tradito. Il vecchio ascaro è il dio padre che guarisce le piaghe e che perdona l’uomo assassino. Il perdono del padre purifica e guarisce la coscienza. I quaranta giorni sull’altopiano assomigliano ad una quarantena necessaria per purificarsi. Era quindi una violenza indispensabile la campagna d’Africa, un errore necessario al risveglio della coscienza? Il militare vuole giustificare se stesso, giustificare l’orrore d’aver portato il tempo e la morte in un luogo dove non esisteva, ma dove il tempo strisciava, si nascondeva nella pozza d’acqua, si faceva ombra scura. Ma tutto ciò era necessario? Il militare torna al campo, nessuno l’ha denunciato, i suoi stanno per lasciare l’Africa. La tromba suona l’adunata. ” E’ una tromba abbastanza comica per il mio Giudizio – dissi – ma a ciascuno la sua tromba” “Eppure – dissi – questa valle… Ma non seguitai. (Inutile cercare un autore, quando di un foglio del suo libro abbiamo fatto cartine per sigarette. Non è vero Johannes?”

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