L’esorcismo della parola: note su

Catasto e altra specie

recensione di Luigi Metropoli

Se la parola è forza generatrice, quella di Antonella Pizzo lo è al di qua di qualsiasi teoria simbolista o ideologia preventivamente adottata. La poesia della Pizzo è intrisa di quotidianità trascolorante, che svolta in angoli privati e drammi della memoria, dietro l’apparente leggerezza e svagatezza del verso; incline ad affidarsi ad una parola che sia anche esorcismo: espiazione e riscatto. L’esorcismo si compie lì dove la parola si maschera e racchiude tragicamente un segreto: colpisce nel segno Stefano Guglielmin nella prefazione, quando mostra il processo di occultamento-apertura che l’autrice opera con l’ausilio del «refuso, la parola sbagliata», con il disseminare indizi «qui e là, quasi per caso» (si veda a tal proposito la poesia a p. 50, Parola d’ordine collazionare…, sapientemente notata da Guglielmin ed eletta ad emblema di questo tipo di procedimento). Così, senza forzare sul piano interpretativo, si può leggere Catasto ed altra specie come un libro che traspone piccole e grandi tragedie private su un piano corale, universale, con una prima parte che ripercorre tante minime biografie sommarie (senza voler scomodare De Angelis). Forse l’esorcismo si compie proprio lì: nel passaggio dal singolo al plurale, dal grumo di impressioni e sentimenti alla parola che accomoda il dolore. L’architettura del libro suggerisce tale lettura. La poesia incipitaria è la cellula costitutiva delle successive: ogni suo verso (o frammento di esso) dà il la alla scrittura di ogni successivo componimento. La parola germina da sé stessa dopo aver fatto i conti con la vita, dopo essersi incastonata in essa: è questo quel che Antonella sembra voglia dire (“il mio tempo è di ventiquattro righe / una per ogni ora del giorno”, p. 25; “giacciono sul tavolo / fogli arrotolati e carte / come i pensieri in testa”, p. 24; o si legga anche come il foglio e lo scrivere diventano il riferimento, la scala di tutto e, nello stesso tempo, nascondono una crepa, una macchia: “è solo una macchia la centro della mappa / al centro del foglio, una macchia, una mappa / la macchia è un’isola, il foglio è un grande mare”, p.32).
La scrittura diventa la custodia degli affetti, ma nello stesso tempo li trascende, dà loro un’altra veste. L’ironia di molti testi e la deformazione grottesca di situazioni bilanciano sapientemente la tragicità riversata in essi.
I componimenti sono lucidi flash: figure colte nel loro fare quotidiano, tra il corso principale e un “bancone del bar / un lunedì mattina” (p. 53). Vi si scopre una naturale vocazione al micro-racconto, alla composizione di ritratti a tutto tondo, costruiti con pochi tocchi di colore e un tratto preciso. L’impianto visivo (e nondimeno pittorico: non mancano riferimenti a Van Gogh e Picasso, sebbene ironici) è fondamentale almeno quanto la parola, quasi da esserne la naturale sintassi, l’impressione che la restituisce al foglio: al contempo si compongono nel verso una gran quantità di oggetti che evolvono naturalmente dalla loro fissità materia ad una liquidità da flatus vocis, quasi fossero anch’essi partecipi di una rimozione, di un lapsus, di un ordine che ci sfugge, fratelli, forse, degli oggetti di Montale.
L’esorcismo, il risvolto della frase, l’ironia, il brio, la tragicità del quotidiano, il nominare gli oggetti (questa sì, una pratica che mescola paganesimo e folklore, ma che trova le radici nell’arte divinatoria della parola, nella liberazione delle sue energie!) sembrano tratti distintivi non già di un modus scrivendi, ma timbri inequivocabili della sicilianità di Antonella. Vi è infatti una visceralità profonda che trova le sue radici in un territorio individuabile senza troppe difficoltà, ma soprattutto una vasta umanità che avvolge la sua scrittura, una compartecipazione che la rende vera poesia-vera vita, proprio per il suo donarsi agli altri senza trattenere niente: la poesia di tutti.

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