Una straziata pietas

Un testo, si sa, vive lungo linee strutturali, ritorni, richiami, ossessioni.

Inoltre un testo non è una singola poesia, è qualcosa di più complesso, delicato,

si offre con maggiore estensione allo sguardo di chi legge, afferra il lettore

con più mani, esibisce diverse prospettive, intona diverse variazioni, ha toni

a volte rauchi a volte dolci, sempre complici, sempre estranei. Nel testo e

col testo si percorre uno spazio di tempo che, soprattutto con la scrittura

della poesia, implica una intimità a volte quasi imbarazzante, una dialettica

vicino/lontano che rende oscillante la comprensione della volontà e delle

intenzioni oltre le parole. Ma qui ci si può fermare, perché un lettore

professionale non è tenuto ad andare oltre: c’è il confine del linguaggio, sicché

per l’autore che si sta leggendo in quel momento vale il brocardo latino ubi

lex voluit, dixit, ubi noluit tacuit. Eppure a ripensarci è ben strano che un

certo numero di persone affidi la propria straziata vita interiore a parole che

volano, che il giudizio sulla “nobiltà” della scrittura sia affidato al conteggio

delle sofferenze. Interessano e commuovono le non integrazioni, la marginalità,

gli onirismi, i fantasmi che percorrono quella terra vaga del linguaggio in

poesia. Perché -occorrerà che qualcuno prima o poi lo dica- la cosa conosciuta

da tutti e che tutti cercano di dimenticare è che la poesia è un linguaggio

minoritario: di universale (ovvero di massa) ha poco o niente, tranne che nei

casi acclarati di becerismo culturale, e ce ne sono; ma in fondo la vita interiore

e lo sguardo di una persona che scrive poesie sarà anche simile a quelli di

molti altri in una sorta di idem sentire, ma la lingua che esprime questa

dialettica corpo/persona è sempre diversa e sostanzialmente inattingibile.

Si stabilisce così una complessa partita fra chi ha scritto e chi sta leggendo,

una esibizione e sottrazione di senso al tempo stesso, una rivalutazione e

in fondo una ricostruzione della lingua secondo un nuovo vocabolario,

con parole che spesso sono le stesse e che invece suonano diverse, sempre

per quella benedetta dialettica vicino/lontano, conosciuto/sconosciuto,

identico/diverso. Eppure il confronto continua: sensibilità personale contro

sensibilità diffusa, sentimento personale comunicato a pochi e sentimentalismo

e commozione di vaste proporzioni: Davide contro Golia, la penna o il web

appuntiti del poeta o dello scrittore in versi e quella sorta di “volemose

bene” generale, che si esprime con linguaggi rozzi e usurati e che pur è, ogni

giorno, il pane di migliaia e migliaia di utenti della commozione quotidiana.

Riuscirà mai la poesia a vincere questo confronto? L’importante è almeno

chiederselo e stabilire i termini della questione, poi si vedrà.

Queste considerazioni, è chiaro, non riguardano direttamente In stasi irregolare,

le composizioni con cui Antonella Pizzo ha vinto il premio Giorgi, il premio

di poesia di Sasso Marconi: lei abita a Ragusa, per dire che la poesia da un

certo punto di vista non teme e non soffre la distanza. La Pizzo non è nuova

ne a pubblicazioni, ne a premi, il suo curriculum parla di una proficua attività,

ma anche senza curriculum basterebbe la sua scrittura.

Tanto è vero, a definitiva riprova, che per aggiudicarsi il primo posto in un

premio come questo occorre sicuramente il consenso di tutta la giuria, cosa

che la poetessa di Ragusa ha facilmente ottenuto. Il testo che ha persuaso

tutti, tanto da spingere a sceglierne il titolo per chiamare così tutta la raccolta,

è In stasi irregolare. E’ un testo suggestivo, da brividi sotto la pelle. La poetessa

pensa alla figlia scomparsa, ne immagina la visita, la vede nei caratteri che

ormai le sono propri: “il vestito sporco di terra” (…) “con le tue quattro ossa

in mano” mentre nella notte il fiato pesante “si impicca alla finestra” (fa

ricordare Eliot questo passaggio, per una di quelle suggestioni involontarie

che poi restano e magari si comunicano oltre le intenzioni). Il fatto è che in

questa visione: nella mano “un pugno di denti da contare uno ad uno”, è

 singolarmente assente l’orrore, che pur sarebbe inevitabile, ed è come se la

“scomposizione” dei dati fisici che l’autrice compie, avvicinasse lei e il lettore

 ad una pietas che rende quasi meno terribili quei dati stessi, da considerare

 ed amare malgrado tutto, perché l’affetto si manifesta come una forza più

 intensa e in un certo senso più intelligente della terribile realtà che si affaccia.

 L’abbraccio con questo nuovo essere è delicato perché potrebbe sconvolgere

 quella “struttura fragile”, i gesti degli umani devono essere sobri e adattati

 alle nuove circostanze. Ma è il testo nel suo complesso (che in questa analisi

 soffre ad essere a sua volta scomposto) che si presenta con questo insieme

 di immagini semplicemente dichiarate eppure visibili, in una atmosfera in

 cui l’inevitabilità del dolore si trasforma in comunicazione del vivente con

 chi ha cessato di essere tale (“non avrei paura (…) delle conchiglie spezzate

 sotto i piedi”). Il fantasma della figlia percorre tutto il testo di In stasi irregolare,

 in modo diretto o indiretto, (“tornai da mia madre a piedi scalzi”), tanto che

 a ragione o a torto viene da sospettare che tutti i soggetti che si incontrano

 in questi versi altro non siano che la figlia sotto vesti differenti. Insomma

 tutte queste pagine parlano, profondamente, di lei.

 

Gregorio Scalise

One thought on “Gregorio Scalise su In stasi irregolare

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