Non luoghi, non tempi Di In stasi irregolare, possiamo dire che è poesia di “non luogo”. Il tessuto poetico si sviluppa, infatti, in una terra di nessuno dove concreto è soltanto il grido di dolore in direzione di un universo fatto di strappi, lacerato nella sua consistenza materica, in cui l’unica materia possibile è quella di una parola dolorosa, incancrenita dalla stessa matrice fonica che la compone. Emerge, in tal senso, una voce roca, purgatoriale e infetta, incapace per scelta di emettere suoni piani e accessibili al comune ascolto; il significato si trasforma così in eco repressa, necessità primordiale di condividere un messaggio che arriva strozzato, stridente, come a ferire l’abisso sottostante. Una poesia fortemente visionaria e moderna, quella dell’autrice, che lascia poco spazio al lirismo, anzi vive dei suoi sintagmi metricamente associabili a un respiro affannato, concitato nella sua stessa emissione. Sul piano semantico, molti sono i termini chiave alla base dell’intero percorso poetico e che permettono il suo divenire: tutti appartengono alla sfera sensoriale della sofferenza e sono inscrivibili nell’esperienza concreta – mai nella finzione – del dolore (“supplizio”, “lingua rivoltata”, “orbite svuotate”, “ossa”, “voragine”, “utero”, “rinsecchito”, “caffè ammorbati”, “canti stridenti”, “orecchie piombate”, solo per citare alcuni termini della prima serie di movimenti poetici, Qui); simmetricamente numerosi versi ripetono, quasi in un anticanto, una storia che scompone nel suo dire chioccio, quasi dantesco, il tessuto della carne, lo frammenta senza alcuna possibilità di rammendo (.. .”incidi il mio profilo nell’onice, col carbone scrivi/il mio nome verranno i giorni dell’acacia dealbata a festeggiarlo”, da In luogo e moto). Il verso stesso ben si plasma all’aritmia dei testi: la Pizzo scardina la metrica a suo piacimento, governandone le pause e le cestire, addirittura amputandole. Oppure, all’estremo opposto, dilatandone anche visivamente la lunghezza fino a giungere, nelle parti finali delle quattro sezioni della silloge, a una prosa poetica efficace, viva per una dolcezza dura, pensata per essere percepita solo in seconda battuta, altrimenti nascosta
in una sorta di soliloquio discendente, lento e nel contempo precipitoso verso un luogo di approdo, forse il nulla, da cui non è possibile risorgere (.. .”non voler più amare, tutto considero/e noto, tutto vorrei m’attraversasse e tutto attraversare vorrei, e il cerchio di fuoco e il lago e la tempesta”, da In luogo e moto). Ciò che convince della scrittura della Pizzo è proprio il senso di spaesamento, con cui nega l’evidenza della contemporaneità: tutto sembra sospeso in un limbo, in una fossa comune. Qui s’agitano monatti e aguzzini, senza lasciare il benché minimo senso di pace, di ristoro. Poesia di movimento, quindi, mai di stasi, che risucchia in un vortice oscuro, dove con i corpi scompaiono i suoni, i riferimenti e il nord ha senso solo se è possibile percepirne l’antipode, un sud frammentario, stridente, aleatorio. Rintracciabili, nei testi, i riferimenti alla precedente produzione poetica della Pizzo, in particolare quelli legati alla sperimentazione fonica, all’evoluzione di una parola che si trasforma in pura energia, come già dimostrato in A forza fui precipizio (Lietocolle, 2005) e nella vasta produzione disseminata in vari blog. La novità evidente della presente raccolta è la capacità magmatica del discorso poetico, ottenuta grazie a un ritmo fortemente anaforico e accentuata da termini tra loro dissonanti, polisillabici, tali da moltipllcare il piano unitario dei componimenti in frammenti lirici che aggiungono possibilità interpretative anche se isolati dal contesto (“facessero la conta per sapere con contezza/che qui nessuno manca”, da In luogo e moto ; “essere fatta di calce e cemento”, da In stasi irregolare, per citarne alcuni). Nel dettaglio, le quattro sezioni che compongono l’intero lavoro (Qui, In luogo e moto, In stasi irregolare. Nel prima nel dopo nel forse) sono complementari e si intersecano per mezzo di frequenti richiami a una collaudata unitarietà linguistica. Ciò che lega i testi è la scelta di un io narrante a-storico, inizialmente sprofondato in un tempo remoto, mitico, che si allinea, pagina dopo pagina, pur lentamente, alla capacità ricettiva del lettore, quasi fosse egli stesso il contenitore dello strappo, della lacerazione tra lirismo e
percezione (“dormirai con la speranza di sognarmi/di vedere la mia ombra farsi corpo”, da Qui). L’effetto ottenuto è quello della moltiplicazione degli specchi: l’immagine riflessa ben si presta a essere reale, così come la realtà stessa rimane imbrigliata nel suo divenire apparenza. E la Pizzo, con sapienza, lo rompe, lo specchio. Lo trasforma in una piccola lama appuntita, riflettente. Lì dentro, l’antiuni verso di In stasi irregolare. E, più nascosta, l’umanità infinitamente grande dell’essere, la sua inesauribile ricerca di senso, nonostante la forza erosiva della pioggia che tenta di farlo vacillare, scolorirlo, dissolverlo. Ivan Fedeli