come vorrei che tu venissi a trovarmi
di notte quando il fiato pesante
s’impicca alla finestra
quando all’aceto si fa l’abitudine e sotto le lenzuola
il dolore è recitato ora e per ore nel prossimo grano
se tu t’avvicinassi alla mia porta
col vestito sporco di terra
nelle tasche i lombrichi grassi
con le tue quattro ossa in mano
nella mano d’ossa e le orbite vuote
con un pugno di denti da contare ad uno ad uno
non avrei paura del rumore delle nacchere
delle conchiglie spezzate sotto i piedi
t’abbraccerei piano
per non sconvolgere la tua struttura fragile
ma se tu tornassi di notte e vuota, ti riempirei di foglie e paglia
e i vuoti e ancora nei capelli e ancora fiori a collane
ancora a fasci ancora intatti come quando
t’allontanasti senza chiedere se potevi
a lasciarmi gli occhi a rotolare e i baci di madre pure
(Antonella Pizzo)

Ecco un testo compiuto: che altro dire? Ma qualcosa da dire c’è, e non è poco. Prima di tutto: credo che questa poesia debba essere letta ad alta voce – provate –, con una breve pausa alla fine di ogni verso, pronunciando più velocemente i versi lunghi e più lentamente i corti, soprattutto quello, bellissimo, che dice «t’abbraccerei piano». Importante: non ha né punti né punteggiatura, se non una sola virgola, e perciò dovrebbe essere letta, sempre, con un tono un po’ aereo o acquatico, con una specie di sospensione alla fine dei versi: ché la punteggiatura presente ha un valore logico e ritmico, (come – in particolare – nella grande poesia di Giuliano Mesa), mentre la punteggiatura assente rende tutto più sognante e imprendibile: la voce che esegue questa partitura deve tenerne conto. Una buona poesia è una buona partitura: si legge bene solo ciò che è scritto bene, e così sempre.
In questa poesia ci sono un concetto (la morte e una persona morta, il sogno di vederla riapparire) e un’immagine (il corpo ormai svuotato dalla carne, ridotto a «quattro ossa»: se si potesse abbracciarle, darebbero suono di nacchere o di conchiglie pestate). Le immagini sono sempre pericolose: perché rischiano – dicevo l’ultima volta – di essere tanto belle per il loro autore quanto insopportabili o enfatiche o inutili per i lettori (TUTTI gli altri). Ma qui l’immagine aderisce perfettamente al concetto: e aderisce perché non si tratta di una metafora, ma della realtà. La persona morta ha davvero un vestito sporco di terra e le orbite vuote.
Nella poesia torna tre volte l’aggettivo «vuoto» (orbite vuote, vuota, i vuoti), aggredito dal desiderio opposto: riempirlo di foglie, paglia e fiori. Se lo scheletro apparisse, sarebbe inutile e disumano conferirgli una carne che l’uomo non può donargli. Meglio adornarlo, e nello stesso tempo mimarne uno spessore, con cose naturali. Questo dualismo (pieno contro vuoto, vuoto contro pieno) è eterno nella poesia: perché non c’è nulla di meno aggirabile della morte, cosa naturalissima, e nulla di meno naturale dell’arte (che – non lo si ripeterà mai abbastanza – crea cose che non si mangiano, non si usano, non sono utensili e non creano potere: tanto meno oggi, e tanto meno la poesia; ci sono – è vero – ‘poteri’ editoriali legati alla poesia, ma sono risibili, oltre che osceni, e forse anche blasfemi). Il privilegio di fare (l’essenza della poesia) si scontrerà sempre con la necessità che sconvolse il giovane Dante: «Di necessitade conviene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia» (parafrasi di Guglielmo Gorni: «è destino che un giorno o l’altro anche Beatrice muoia»). Né la perfezione (Beatrice è alter ego dell’Amore stesso) né le lodi di Dante possono impedire la morte di Beatrice, e questa «necessitade», da un lato, ci obbliga all’umiltà, dall’altro ci ricorda che le nostre parole (lodi, nel caso di Dante verso Beatrice) devono avere il giusto peso e il giusto oggetto. Dobbiamo tenere presente che parliamo, in gran parte, di cose persone situazioni che svaniranno.
Nella poesia di Antonella non c’è tanto la morte quanto una persona morta, e la relazione che una mano viva istituirebbe con le ossa secche: non è difficile vedere in questo atto – abbracciare ciò che non è abbracciabile («struttura fragile») e riempire i vuoti – una lode della parola: debole ma non vuota. In realtà è molto più fragile lo scheletro, privo di vita. Voglio dire: la parola non è pronunciabile senza precedenti e conseguenze, e la sua sola articolazione dignitosa comporta problemi, e dunque senso, e anche una violenza al normale ordine delle cose. La morte rimane, ma subisce una battaglia semantica, senza rassegnazione (nel credente, interverrà sempre la fede, completando la battaglia). Io stesso scrivo per questo motivo, anche ora e anche qui. E vivete felici.

massimo sannelli

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