Antonella Pizzo, In stasi irregolare
(Le Voci Della Luna Editore, 2007)

 Se nel precedente Catasto ed altra specie (uscito nel 2006 per i tipi di Fara Editore) realtà e fantasia concorrevano nel fondersi, in questo In stasi irregolare è la massima realtà possibile a prendere scena. Realtà e ricordo, due piani sovrapposti e inscindibili, geneticamente collusi dove l’attore è carne, è l’infettato da emozioni ineludibili che a noi arrivano come voce medium di memoria.
La memoria di un fatto è la percezione del suo significato, il ricordo di un fatto è la percezione della sua dinamica.
Per Antonella Pizzo i piani si fondono ma lei è quell’attore che non perde i punti cardinali del linguaggio comunicativo, bensì ammette la tragedia tramite la vocalizzazione poetica nello scritto, attualizzando la tragedia di tutte le tragedie, la sconfitta data dalla morte di una persona cara. Dove chi scrive è già vestito a lutto e dove continuamente si alternano passato e presente (ma dove anche occhieggia il futuro possibile del e se fosse stato diverso), il mythos (ovvero l’oggetto-persona che è il fulcro della narrazione) si fonde con l’azione (il narrare appunto) e diventa rappresentazione diretta in cui il lettore vede con i propri occhi ciò che è visto dagli occhi di chi scrive e dove il personaggio che compare (pur nell’assenza) è una entità distinta che agisce autonomamente sia nella scena libro che nella scena vita, provvisto quindi di una propria dimensione psicologica che sovrappone a quella di chi la voce agisce per dirne.
Il lutto è un processo che ci accompagna nella vita, in risposta alla perdita, al vuoto doloroso della separazione. Dobbiamo però ricordare che la vita si manifesta attraverso due forze contrapposte: il desiderio di amare e la capacità di lasciar andare.
I rituali ci aiutano a vivere il dolore, ci mostrano la strada per superare il lutto e ci danno sensazioni di sicurezza, di sostegno. E ci sono diversi modi in cui i rituali del lutto possono esprimere queste emozioni, diventando cosi possibile concentrare l’attenzione sull’importanza di un discorso sull’anima quale elemento di particolare rilievo che viene coinvolto e dove si configura un’anima lacerata, dimidiata, ma che è in grado di ospitare quelle passioni prima espulse, e che perciò è sempre in bilico tra ragione e spaesamento sociale, psichico e mentale.
Ciò che naturalmente ne nasce è una sorta di dedizione, una dedizione che prende sopravvento ma con parsimonia, cui la Pizzo non assegna il compito della devastazione e della perdita, dell’abbandono senza scampo, bensì quello teso alla costruzione della vita, quasi che essa possa totalmente trasformare le radici (della vita) in qualcos’altro che faccia – appunto – dimenticare la scomparsa.
Dimenticare è lasciare andare. Lasciare andare è perdonare. Perdonare significa ricostruire un legame spezzato.
L’atto del perdono è proprio di tutte le comunità che danno valore ai vincoli civili ed esse, attraverso la disponibilità dell’offeso a ristabilire un rapporto con l’offensore, rinsaldano i vincoli che legano tutti i soggetti che nella comunità stessa si riconoscono.
Il perdono, quindi, ha un valore assai rilevante per la continuità delle relazioni tra singoli e qui è un valore assoluto nel comprendere le modalità che la Pizzo persegue per pacificare con la scomparsa e con l’atto della scomparsa, ingiuria assoluta e bestemmia. Qualcuno è stato strappato dall’affetto, dalla presenza, con la forza: un atto lacerante e non reversibile, un’offesa.
Una prima forma di ricostruzione di questo legame è l’oblio dall’offesa.
Il perdono è l’anticamera dell’oblio? O che il contrario del perdono è la memoria? Il perdono azzera la responsabilità, chiude la vicenda?
Sono domande che – seppure non espresse in chiaro ma evocate tramite immagini potenti di vicinanza – la Pizzo ci rilancia. E ne leggo la conclusione: il perdono non chiude la strada alla memoria; chiude la strada alla vendetta.
Antonella Pizzo, percorrendo i tre quadri che compongono questa densa, possente silloge (In luogo e moto – In stasi irregolare – Nel prima nel dopo forse) compie una ricerca sulla qualità della presenza, si mette in gioco, si rapporta senza finzioni, elucubrazioni, astrazioni. E c’è un tormento diverso nella parte terminale del libro, viscerale eppure pacificato, una incompiutezza nuova che svolge sino a trovare ogni parola esatta.
E qui, ancora una volta, la compiutezza formale della Pizzo avvia un nuovo e diverso discorso: rimanere senza parole sul “dopo”, credere che tutto sia finito ma al contempo che il distacco non sia in alcun modo superabile.
Non togliere quindi la paura quotidiana alla morte né della separazione. Mai.

Fabiano Alborghetti

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