La nuova raccolta di Antonella Pizzo, pur se improntata, come la precedente, nello stile del graffio e dell’improvvisa impennata, ci sembra però orientata a una nota più serena, ma è soltanto un cambiamento di registro, l’uso della carota invece del bastone, per stigmatizzare e mettere in ridicolo una sorta di piccineria morale, una sorta di perbenismo piccolo piccolo nel quale rischia di scorrere l’esistenza degli individui. Ecco allora che il lavoro al catasto, il lavoro quotidiano, diventa l’osservatorio privilegiato per un campionario di personalità, con i loro mediocri difetti, la ristrettezza di vedute, il passare la mano e la rinuncia a un ideale o anche a un semplice “seguir virtute e canoscienza” per adagiarsi nel tran tran del quotidiano e per giunta credendo di ingannarlo con piccoli trucchi, passatempi, carabattole e pacchianerie che di fatto diventano il senso, l’occupazione vera, la vita stessa. E’ insomma una vivace messa in discussione di una prospettiva che, nel mondo contemporaneo, sembra lasciata a se stessa – e la poesia stessa, credo, poco o nulla si occupa di lavoro. Il lavoro può essere realizzazione del proprio “io”, ma può essere anche condanna, quando perde senso, diventa ripetitivo, decisamente inutile com’è nella maggior parte del lavoro burocratico, a volte legato a necessità concrete o a norme che ormai non sono più attuali. Antonella sembra appunto prendere di mira, con un linguaggio leggerissimo e quasi scherzoso, questa rimossa alienazione del “lavoro-condanna”, ma l’effetto che ottiene, se si considera e si riflette attentamente sul senso globale della raccolta, è quello dello sberleffo feroce, della presa in giro un po’ volpona, del ridere alle spalle facendo finta di essere seri. Cattivella, pertanto, la nostra autrice e per nulla conciliante. La sua poesia resta, come sempre e anche in modo così giocoso e appena velato di satira, una poesia impegnata moralmente, di rottura.
Rottura che si registra anche nel linguaggio, che cerca una collocazione di confine fra dialogo in prosa e poesia, pronta cioè a sacrificare anche la metrica pur di evitare fraintendimenti. Il linguaggio parlato infatti viene qui usato non tanto per esigenze linguistiche, ma per esigenze di rappresentazione, di realismo. Nel linguaggio stesso sta la chiave per l’interpretazione dell’intenzione poetica e pertanto lo si deve intendere come ipersegno, non nel significato letterale ma nel rimandare a un orizzonte mentale e perché “sta per” questo stesso orizzonte.
E’ insomma una raccolta felice, che sprizza energia e forza interiore, che ottiene l’effetto desiderato, ossia quello di farci ragionare sul senso del lavoro. La struttura della raccolta e anch’essa una specie di gioco già noto ai poeti: ogni composizione infatti (eccetto la seconda) prende il titolo da un verso o un emistichio della prima poesia. Come a dire che su molte cose ci sarebbe da scrivere, ma che bisogna contenersi, darsi un limite per evitare che l’ansia di dire ci precluda pause di silenzio e ci condanni all’alienazione del dire impedendoci la libertà del sentire, o anche per dare ordine e forma a una materia in sé magmatica, infinita.