Giovanni Giudici – Poetrypedia i poeti dalla Z alla A

Giovanni Giudici, 1970, Praga, foto di Corrado Giudici

Gli abiti e i corpi

Ormai sfibrate le asole e sapienti
rammendi qua e là – ma gli abiti
sembravano come nuovi. Lui
accurato ogni sera li deponeva
sopra una sedia – quali
che fossero l’umore o la stabilità
l’uxorio brontolamento che lo affliggeva.

E deponeva con essi il tic-tac
che gli scandiva giorni e notti, l’oriolo
da tasca con una croce
elvetica in campo rosso – emblema
di esattezza agganciato a una teca di cristallo
con dentro una trapunta di velluto
in attesa di reliquie microscopiche.

Gli abiti duravano anni:
il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce.
e ognuno col suo panciotto sul quale durante il giorno
la catenella che pareva di diamanti
tra un’asola e l’oriolo nel taschino si stendeva.
lui certe sere era greve di vino.
si spogliava nel sonno, puntava al mattino.

Ma si destava fresco come certe volte io
adesso forse più vecchio di quella sua età,
che lo sbirciavo ritrovare le sue spoglie:
la giacca dignitosa, i pantaloni
dall’impeccabile piega. E perché
non dire del fregio rosa sulle mutande?
perché tacere il colletto inamidato?

Tutto così ringiocondiva a ogni
risveglio – sbarbato e tranquillo
e di un colore chiaro se distese dal riposo
sbiadivano sulle guance le venuzze capillari.
quale decoro l’abito
rinnovato ogni giorno, restaurato
dal persistere della giovinezza!

Dico il nero, il grigetto, un altro a spina di pesce
e un quarto credo ereditato da un parente
defunto: duravano anni.
Io li spiavo mattina dopo mattina
e lui spiavo impassibile a tutto:
al passare del tempo,
al male dei creditori.
…..
C’è un calare di forze, un calare di brache.
Le note dei taccuini si pasticciano, né
Più giova registrare i nomi delle amanti
O gli incontri, i doni. Chi se ne frega,
Uno si dice, dell’ordine. E lì
Lui non ebbe più forza da dare ai suoi vestiti:
Di colpo furono vecchi.
……
Primo fu il nero umiliato dal lustro.
Poi sparì il grigio, poi quello a spina di pesce. Di-
Menticamioli. Altri ne furono addotti
In vece – da sartucoli azzeccagarbugli
Asserenti per mezzo delle vesti
Di portargli vigore.
Tra gli OH

Dei familiari che COME TI STA
BENE COME TI FA
GIOVANE mentivano e lui
Lasciava fare ma lo sapeva benissimo
Che anche i più ricchi panni perdono il loro pregio
Quando è mutato il corpo che li indossa.
Non ha più gloria da dargli.

In tre giorni si sfa il bel vestito.
Lui lo trascina nel suo precipitare.
Strappi e frittelle e bottoni penzolanti
Presto divelti da pestiferi infanti.
Muoia con me ogni orpello – sembra dire.
L’oriolo diventa aritmico.
Anche la Svizzera dà ore da impazzire.
….
Ah il triste riprovare – ché lui stava
Ancora in piedi tenuto su
Dall’appretto del nuovo ma per poco.
Nel cupio dissolvi di tutto poi ripiombava.
Eppure vivo da spaccare quel gusco
Falso che l’imbracava
Quando gridava BASTA CON QUESTE FREGNACCE.

Perché come se fossero
Vivi vestiamo i morti?
Quanto più casta e giusta
È la nudità dei corpi che li avvicina
Al loro finalmente disincarnarsi!
Ma noi li mascheriamo così copriamo le ossa
Troncate perché fingano la supinità della catarsi.

La liberazione dell’uomo
Bisognava vederlo. Cos’era
Una giornata di lavoro per lui?
Niente – avreste detto allo spettacolo
Di quando tornava a casa, contento
Come una pasqua, fresco come un fringuello,
Un grillo che saltava
Di stanza in stanza «dove sei» squittendo
«O mia adorata».
E ilare al ritrovarla «cucù»
Lanciava il suo gridolino
E poi subito all’opera «buona tu adesso»

Esordiva rivolto alla pigra befana
Tutto il giorno a fumacchiare sdraiata
A far parole crociate o solitari di carte.
Aveva l’arte di non vederla un orrore
Ma anzi le sette beltà, la grazia.
Per prima la cucina – oh il lustro
Che gli dava quell’uomo a quelle piastrelle
Alle pentole ai piatti alle maniglie,
Faceva tutto come nuovo ogni sera.

E altrettanto la sala lo stanzino
Il casto nido coniugale dove
A lei diceva con dolcezza «passa
Cara in poltrona intanto che faccio il letto».
Poi d’un balzo ai fornelli – e in un battibaleno
Che intingoli a quella golosa apprestava:
Salse bearnesi, vol-au-vent, supreme
Squisitezze di caccia e pesca, brodini
Di tartaruga, pasticci di funghi
A ogni stagione, ananassi.
Miracoli di economia – sempre meno
Spendendo del gramo peculio.

Mai che si chiedesse lei «come fa»,
Tutto accettava per dovuto battendo
Talvolta imperiosa la posata
Per una crème-brûlé troppo calda o un raviolo
Dalla minima crepa. Ed egli pazientissimo
Si scusava «hai ragione, che sciocco».
Poi l’assisteva in toilette
E la metteva a nanna sprimacciando il cuscino.
Davvero «che stronzo» avreste detto
E tanto più sapendo quanto sgobbava in ditta
Sotto il sopruso dei capi
E dei compagni la perenne irrisione:
Così per molti anni
Finché la beneamata morì per occlusione.

Ma nessuno ha saputo mai più
Di che libertà fosse il prezzo la sua servitù.
Senza titolo
Perché con occhi chiusi?
Perché con bocca che non parla?
Voglio guardarti, voglio nominarti.
Voglio fissarti e toccarti:
Mio sentirmi che ti parlo,
Mio vedermi che ti vedo.
Dirti – sei questa cosa hai questo nome.
Al canto che tace non credo.
Così in me ti distruggo.
Non sarò, tu sarai:
Ti inseguo e ti sfuggo,
Bella vita che te ne vai.

Nome
Era oro il nome e suono
Nella forma di campana
Non più ora mattutina
Ma ancora antimeridiana
Era verde negli ulivi
Era blu della marina
Nudo piede delicato
Su rugiade di declivi
Era oro il nome e vetro
Di bicchiere musicale
Fermo incedere nuziale
Nel decoro delle sfere
Netta nota e lontana
Lucenza al cervello tetro
Fiato a fiato che rideva
Nell’abbraccio della tana
Era oro il nome e mare
Era il chiaro della stanza
Era il niente del sublime
E un patire di speranza
Era il sole della neve
Era il bianco della fine
E poi il gelo crudo e lieve
Sull’estremo della danza
La sua scrittura
Voglio mostrarti un giorno com’era
La sua scrittura. Si appartava di là
Il foglio su un qualcosa
Di liscio con la mano sinistra sul bordo
Superiore a tenerlo ben fermo.
E intingi giù l’asticciòla
Col pennino nuovissimo a vergare
Missive… Egregio, esordendo, commendatore
Avvocato chiarissimo esimio
Ingegnere ammiraglio comandante
Eccellentissimo monsignor vescovo Graziosa
Regina… O intestando
In compìti caratteri sulla busta
N. H. un tànghero di bottegaio.
Quando osterie e compagni stornava
Nel chino silenzio a cui segrete
Drittissime le righe scorrevano
Del bel corsivo senza pentimenti
E gli stilemi – un ove a preferenza
Del dove in accezione
Temporale scarsamente impiegabile.
Stendeva suppliche, chiedeva dilazioni,
Esponeva le circostanze imprevedute per cui,
Deprecava l’infausta sorte
Che a questo punto rendeva la morte
Unica cosa desiderabile per lui.
Purché gli concedessero il minimo di respiro
Creditori e benefattori.
Spesso di quelle lettere protagonista
Con gli occhi io lo aiutavo nella penombra della stanza
Dove a un raggiro di parole
Egli affidava la nostra speranza:
Di salute così delicata
Questo mio povero bambino
Impressionabile come un artista.
Li abbindolava li teneva a bada sagace
Politico a parare
I colpi in ritirata necessaria,
A rattoppare l’impostura con una nuova
Ovvero giocoliere del circo
Un turbinìo di palle a palleggiarsi
Tra le annaspanti abili mani nell’aria.
Quale fatica – sembrava dirmi
Da quel tavolino adesso penso a tre gambe
A evocare virtù tropi similitudini
Esempi da pio debitore,
Alla fine del mese senz’altro pagherò,
Ma poi riposto il calamaio riuscire
Col suo sereno sorriso nel sole.
Doctor Subtilis… Anche lui scriveva il nulla.
Anche lui rinviava tutta la vita a domani.
Con quella prestidigitazione di segni
Anche lui remigava nel lieve vuoto impeccabile.
Fin quando le sue righe cominciarono a incurvarsi
Verso il finire i margini a farsi incerti
La forbita sintassi a guastarsi.
Fino al delirio d’inchiostri e indirizzi sbagliati.
Fino al via-vai sulla porta
Di strozzini per reverendi
Di ciabattini per prìncipi apostrofati.
Ma chi s’è visto s’è visto
Risponde la mente morta.
Così i debiti saranno pagati.
Ahimè – dicono – si piega
Ahimè – dicono – si piega.
Ahi si svuota e si inarca.
Alfa include già omega
Navigato in chiusa barca.
Mentre nell’estranea forma
Ti intuisco e custodisco,
Mutazione, chiesa e norma,
Buio in cui mi definisco.
O diversa sapienza.
Presente che bruci il prima.
Sapienza d’inesperienza.
Mia fabbrica e mia ruìna.

Metti la vita in versi

Metti in versi la vita, trascrivi
fedelmente, senza tacere
particolare alcuno, l’evidenza dei vivi.

Ma non dimenticare che vedere non è
sapere, né potere, bensì ridicolo
un altro voler essere che te.

Nel sotto e nel soprammondo s’allacciano
complicità di visceri, saettando occhiate
d’accordi. E gli astanti s’affacciano

Al limbo delle intermedie balaustre:
applaudono, compiangono entrambi i sensi
Del sublime – l’infame, l’illustre.

Inoltre metti in versi che morire
è possibile più che nascere
e  in ogni caso l’essere è più del dire.

Il mio delitto

Se scrivere era vivere
Vissuto fu lo scritto
Cercavo appena un’isola di spazio
Un silenzio un sorriso intorno a me
E blando vino e modica allegria
Un quieto conversare a lume spento
Esserne perdonato non sapendo
Il mio delitto.

DAL CUORE DEL MIRACOLO

Parlo di me, dal cuore del miracolo:
la mia colpa sociale è di non ridere,
di non commuovermi al momento giusto.
E intanto muoio, per aspettare a vivere.
Il rancore è di chi non ha speranza:
dunque è pietà di me che mi fa credere
essere altrove una vita più vera?
Già piegato, presumo di non cedere.

*

UNA SERA COME TANTE

Una sera come tante, e nuovamente
noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro
settimo piano, dopo i soliti urli
i bambini si sono addormentati,
e dorme anche il cucciolo i cui escrementi
un’altra volta nello studio abbiamo trovati.
Lo batti col giornale, i suoi guaiti commenti.

Una sera come tante, e i miei proponimenti
intatti, in apparenza, come anni
or sono, anzi più chiari, più concreti:
scrivere versi cristiani in cui si mostri
che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti;
due ore almeno ogni giorno per me;
basta con la bontà, qualche volta mentire.

Una sera come tante (quante ne resta a morire
di sere come questa?) e non tentato da nulla,
dico dal sonno, dalla voglia di bere,
o dall’angoscia futile che mi prendeva alle spalle,
né dalle mie impiegatizie frustrazioni:
mi ridomando, vorrei sapere,
se un giorno sarò meno stanco, se illusioni

siano le antiche speranze della salvezza;
o se nel mio corpo vile io soffra naturalmente
la sorte di ogni altro, non volgare
letteratura ma vita che si piega nel suo vertice,
senza né più virtù né giovinezza.
Potremmo avere domani una vita più semplice?
Ha un fine il nostro subire il presente?

Ma che si viva o si muoia è indifferente,
se private persone senza storia
siamo, lettori di giornali, spettatori
televisivi, utenti di servizi:
dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,
in compagnia di molti sommare i nostri vizi,
non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.
È nostalgia di un futuro che mi estenua,
ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!
Da quanti anni non vedo un fiume in piena?
Da quanto in questa viltà ci assicura
la nostra disciplina senza percosse?
Da quanto ha nome bontà la paura?

Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura
che dice: domani, domani… pur sapendo
che il nostro domani era già ieri da sempre.
La verità chiedeva assai più semplici tempre.
Ride il tranquillo despota che lo sa:
mi numera fra i suoi lungo la strada che scendo.
C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Giovanni Giudici

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