La nuova silloge di Antonella Pizzo è un pegno d’amore, giuramento smisurato in cui luccica una storia. Non vi sono strapiombi impraticabili contrariamente al titolo ma visioni, intermittenti e lucide contrade che baluginano di senso.
L’eterno conta le vittorie con numero appositamente creato | un limite che ha stabilito prima di un prima mai esistito e l’io, puntiforme e finito, lascia così il posto all’anima, un’abitazione profonda che sa attraversare la conoscenza delle cose e di sé. Mi chiamo mi solluchero mi corrispondo | mi intingo in estasi e mi riprendo | spero e prego che qualcuno arrivi | in questa desolata landa | in questa terra spuria di confine. Sono numerose le stanze del digiuno; ognuna dotata di abbaini e specchi circonflessi, luoghi e punti di fuga da cui la vista si fa dapprima oscura per poi diventare nitida cognizione del limite invalicabile: quello della nostra finitudine perimetrale che avverte la trasformazione della carne così come di tutti gli enti prossimi alla parola poetica. Pizzo non teme la fine di tutte le cose, che si affaccia sull’ultima delle possibilità, ne mostra invece l’eventualità: osservare il dritto e il rovescio della quasi morte cercando di restare salde. In questo viaggio fantasmatico non ci si può dire sempre in solitudine, il verso è infatti spesso riferito a un Tu riportato in terra capace di sopravvivere nella scrittura; l’interlocutrice suscitata è una bimbetta che ha foto tutte in forma di domanda; non viene cullata, non ne ha bisogno, ma tenuta accanto. A lei Pizzo, anima che non s’arrende, ricorda che l’abisso, così come il crepaccio, ha facoltà di ricongiungimento se attraversato insieme; esiste una trama, come un ordine, che non convoca il reale secondo la sola ragione ma che si piega al ritmo del fiato. Ed è proprio a quel sussulto sottile e verticale che la poesia vuol dare giustizia, non come pretesa di verità bensì come viatico che può apparire esiziale e che invece sa dimorare l’ambivalenza del giorno. Un preciso ordito testimonia che il nostro tempo è questo e io lo vedo andare, come lo scorrere di matasse che si dilatano dal didentro senza ripensamenti. Non ci sono più scuse per l’occhio ma interrogativi desideranti con un’unica certezza in lingua materna; secondo la poeta, è la mano salda della madre infatti a cui ci si consegna, la stessa mano che tiene la lampada e con l’altra scansa le spine. La bambina ritrova il filo | la sua mamma il latte caldo; il tumulto si placa e l’ombra della negazione lascia spazio all’affidamento. Come distese sul fondo del mare, in un mattino che si compie ogni volta – come fosse la prima.

(Alessandra Pigliaru, Postfazione)

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