Cominciare un discorso e cominciarlo in un certo modo, cominciarlo da un noi. Una mattina forse, appena alzati. E’ quella l’ora giusta anche se non abbiamo deciso noi che fosse quella, ma è quella, di questo siamo certi, ci viene la certezza da un dolore “rancido” che ci chiama a rendere conto della sua esistenza. Uscire da noi stessi allora, guardarsi e guardare, farsi da parte per osservarsi meglio, specchiarsi nella stanza degli specchi di un castello. La nostra immagine è riflessa e il riflesso viene a sua volta riflesso in un altro specchio così che non si capisci più se si è uno o se si è in tanti, dov’è abita l’io e dove sta il tu, ci siamo noi e ci chiamiamo a raccolta perché c’è un lavoro da fare, e dobbiamo farlo anche se il cuore ci scoppia, anche se la visione è raccapricciante e ci tocca passare le mani sopra la fiamma di una candela che è stata la nostra vita, prendere questa fiamma nelle mani e buttarla nel pozzo ad illuminare il buio, anche se il cuore ha un tonfo, anche se la visione del pozzo è orrenda. Abisso profondo dal quale però si è riusciti a risalire a mani nude, infatti le mani sanguinano ancora, ma non basta, occorre fare un bilancio, misurare e misurarsi, considerare il percorso che si è fatto e considerare come è stato fatto, e quanto c’è ancora da fare e come questo percorso si debba continuare a fare, se sia il caso di togliersi la maschera fatta col fango del pozzo. E’ il caso di togliersi la maschera anche se sotto il nostro volto può essere che sia butterato e i lineamenti orrendi, o il nostro può essere che sia un profilo scialbo, che non dice niente, un profilo simile a tanti altri, ne più e né meno un volto come tanti. Guardare in faccia la realtà, scrollarsi il fango di dosso, guardare il dentro e il fuori, il sotto e il sopra, la terra tutta con occhi coraggiosi. Farsi parola che chiarisce, parola che ordina e depura, essere anguilla che inghiotte i vermi affinché l’acqua diventi limpida, potabile anche se acqua senza sale, e forse acqua senza sapore ma bisogna rischiare e rischiarare. Allora cominciamolo questo viaggio alla ricerca del senso e del senso del viaggio stesso. L’istinto e la nostra natura animale, e la mente primordiale, la mente di bambini che accoglie ed elabora nuove idee, come quando l’acqua era dappertutto, come quando nell’utero materno sguazzavamo come pesci innocenti.
Prologo
calmati o il cuore ti scoppierà e non è metafora
poetica ma proprio sordo tonfo d’organo
risposta che travalica
domanda e nel vuoto degli occhi
si schianta
ora scrivi come hai sempre fatto
e non scherzare più col fuoco
della vita
o in una di queste mattine la piccola
storia sgangherata e sempre
pronta a rimangiarsi il cielo
finirà tra lo strepito del condominio
non come si chiude un volo
ma come un colpo di tosse
calmati e scrivi: fallo anche ora
in mezzo ai capelli bianchi
fallo come quando eri ragazzo
col terrore negli occhi
fallo anche solo per non crepare
non si tratta più di conoscere
si tratta ora nel pericolo
grande solo di portare a casa
la pelle: non c’è niente in questo
di cui ti devi vergognare: è così
e basta.
e ora che la voce si alza riesci
perfino a vedere nella finestra
di fronte l’onda del mondo
che s’appiana in risacca di pietra
e metallo: senza prodigio non vai
da nessuna parte ché quello
che non ti fu dato all’inizio
non cesserà mai di mancare
e lo hai sempre saputo di andare
storto nel mondo come uno
che anche correndo lo fa
con una corda al collo: ora
non dare strappi: fa colazione
fatti la barba siediti pure
ma fallo lentamente senza la stretta
non è colpa di nessuno se la voce
che ti dai è la sola che in piedi ti tiene
*
ora ti tocca prendere
questo dolore rancido
e portartelo ovunque
con te: puzza, certo,
come ogni cosa che viva
è andata a male senza
per questo sparire
ma non hai scelta:
è roba umana comunque
pensa che ognuno c’ha
qualcosa nascosta
del genere da qualche
parte e come te è fresco
di scoperta o peggio
morirà senza averlo mai
saputo
e pensa anche che all’aria
il sapore rancido
si seccherà
e un bel giorno per via
farai finta che quella
muta non ti appartiene:
tirerai dritto
come se il verme
fosse di un altro
quello che ti tocca
ora
è tenerti una tristezza
in più
come ad un certo punto
uno accetta gli anni
che ha
e si sente la faccia
più calda e pesante
come se appunto
fosse passato del tempo
a dispetto delle ridicole
mosse che faceva
per restare in quella buca
dove una volta
era caduto
ora lo sai che se non esci
è perché hai imparato
a giocare
non importa con che
pur di restare:
hai fatto il morto
insomma
per non morire
e adesso che sei fuori
a metà
senti come normalmente
il mondo sia lontano
ed è giusto così:
ognuno parla davvero
se lo fa
dal chiodo
che un bel giorno
l’ha fissato
altrimenti è tanto per fare
altrimenti è solido teatro
da www.cepollaro.it/LavFarTe.pdf
Il testo è lunghissimo, io l’ho ascoltato in mp3. Il testo completo si può leggere e ascoltare qui:
http://www.cepollaro.it/LavFare/LavFar.htm
nel sito si possono leggere anche molte letture critiche.
Queste sono noticine mie d’esercizio, consiglio di leggere anche la scrittura #4 di Francesco Marotta pubblicata su La poesia e lo spirito