Una vita in scrittura: Remo Bassini

Io non ho certezze sulla scrittura in generale. Sulla mia sì.
È figlia della mia timidezza, della mia eccessiva sensibilità, dei miei fantasmi. Ovvio: per essere un bravo scrittore occorre anche altro. Anni fa, in un’intervista, mi chiesero: Dove nasce il talento di Remo Bassini? Io risposi: “Mi sono interrogato spesso sul talento. Dante ne aveva e anche Simenon. Ma prendiamo Primo Levi, Se questo è un uomo. Un grande libro, di un talento che, penso, nacque grazie – o a causa – della prigionia in un campo di sterminio. Dove la vita e la morte e la natura umana vengono viste e vissute con occhi diversi. Ecco, io credo d’aver vissuto dei miei piccoli campi di sterminio. E penso che un giorno imprecisato sono riuscito a raccontarli. Il mio talento, se talento è, nasce dalla mie tempeste.”
Allora, ho sessantacinque anni e la prima tempesta che rammento arrivò quando di anni ne avevo sei. Morì un fratellino più piccolo. Si chiamava Fabrizio. Mia madre fu spezzata in due e dopo il funerale divenne una madre sconsolata, propensa al pianto. Io avevo un problema: ero troppo discolo, troppo disordinato, e a scuola non andavo bene. Insomma, facevo disperare una donna con i nervi a pezzi. C’era anche mio padre, ma tra fabbrica e orto e lavoretti vari c’era poco.
Forse fu per questo che per vivere e sopravvivere alle sgridate e alla depressione di mamma, cominciai a inventare e raccontarmi storie e personaggi, che mi facessero compagnia. Eravamo poveri, non avevamo la televisione. Ma io ai miei compagni di scuola dicevo di avere visto tanti film: così raccontavo loro le mie storie, i miei personaggi. Mi piaceva che mi ascoltassero.
Non so quando, ma so che da ragazzo, tra un libro di Salgari e uno di Verne, cominciai a dire che da grande avrei scritto un libro.
L’abitudine a scrivere nella mia testa è rimasta: i miei ultimi libri li ho scritti prima passeggiando con il cane e poi davanti al computer.
Ma arrivare alla scrittura, a un romanzo fatto e finito e da proporre a un editore, comunque, non è stato facile.
Per anni e anni ho scritto cose (poesie, copioni teatrali, primi capitoli di romanzi) senza mai ultimarle. Quando rileggevo mi bocciavo: non mi convinceva quanto avevo scritto.
A 35 anni, dopo la laurea in lettere (ho studiato lavorando, 7 anni in fabbrica, poi 3 anni come portiere di notte in un albergo) venni assunto dal giornale storico della mia città (La Sesia, fondato a Vercelli nel 1871); diventai anche bravino (diventerò direttore, anni dopo) però mi portavo dentro un dispiacere. Grande. Non ero riuscito a scrivere almeno un libro. Pensavo ormai di non esserne capace. Fine di un sogno.
Una sera, però accadde qualcosa di diverso. Lo racconto spesso questo episodio, lo racconto soprattutto nei corsi di scrittura che tengo.
Una sera, dicevo. Ho mal di denti, così non esco, non leggo, non guardo la televisione. Ma mi siedo su uno sdraio con un block notes. Mi dico: “Hai 38 anni e ti sei arreso. Non scriverai nessun libro, tu.”
Guardo il block notes. “Inutile che scrivi qualcosa – dico ancora tra me e me – tanto poi, se metti giù qualcosa, quando rileggerai, butterai via tutto.”
Ero quasi sul punto di non scrivere niente, di alzarmi, di fare altro. Arrivò l’illuminazione: sì, illuminazione è il termine giusto. Una lampadina. Dico ancora qualcosa a me stesso. Qualcosa che non avevo mai detto e che non avevo mai pensato. Mi dico: “Raccontami una storia”.
Iniziai a scrivere. Questo:
“Sa di antico il mio piccolo bar, è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comprare i dolci della pasticceria Delrosso.”
Cosa c’era di nuovo in queste righe? Tutto. Di che bar stavo scrivendo? Di che luogo stavo parlando? Più andavo avanti e più mi addentravo in qualcosa che non avevo mai visto. In quelle righe non c’era né Vercelli, la città in cui sono cresciuto e in cui vivo, né Cortona, il mio paese, in Toscana, dove spesso torno.
Forse (dico forse, ma non lo so) ero tornato il bambino che inventava storie per sopravvivere al dolore della propria madre…
Sta di fatto che finalmente, quella sera, ero riuscito, dopo anni, a scrivere qualcosa di decente. Diventerà il mio primo libro.
Non solo. Mi avevano insegnato un segreto quelle prime righe: che quando scriviamo dobbiamo sorprenderci. La nostra testa – gli psicanalisti lo sanno bene – sa più cose di quelle che crediamo di sapere.
Ho pubblicato quattordici libri e ho anche ricevuto un paio di riconoscimenti importanti, ma per scrivere non basta aver sofferto, non basta avere la vita complicata da un eccesso di sensibilità. Né bastano gli argomenti che in genere tratto io: i ricordi, il senso di colpa, gli amori impossibili, i grandi rimpianti, i sogni, la rabbia anche. E le storie delle persone fragili e sensibili, nelle quali, almeno un po’, mi specchio.
Non bastano perché la scrittura richiede dedizione, applicazione, sudore. Senza, non si va da nessuna parte. Ce lo insegna Fenoglio, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento: “La mia miglior pagina se ne esce spensierata dopo decine e decine di penosi rifacimenti”.
E la dedizione, all’atto pratico, si traduce nel binomio leggere e scrivere. Quanto leggere e quanto scrivere? La risposta è semplice. Più tempo si dedica a lettura e scrittura e più legna da ardere ci sarà nella nostra testa.
Scrivere ogni giorno, anche solo un quarto d’ora, è importantissimo. Va bene un blog, una pagina di diario, un racconto di mezza pagina. Serve. Serve soprattutto se si impara – o comunque se si prova – a scrivere lasciandoci andare: lasciandoci cioè guidare più dalla mano (l’inconscio) che dalla testa.
Oppure pensando come pensano i pazzi (diceva Flaubert).
Serve leggere, certo. È cosa nota, questa. Trita e ritrita. Ma attenzione: non è importante leggere tanto, quello che importa è leggere bene, con attenzione, in profondità. Prendere una frase, rileggerla. Domandarsi del perché di una virgola, che spesso significa rallentare o dare più ritmo. Io applico due regole nelle mie letture. Regola numero uno. Meglio trascorrere ore per cercare di carpire i segreti di una pagina ben scritta che leggere un libro in fretta e furia. Regola numero due. Scegliere con cura ciò che si legge, perché ci sono scritture che arricchiscono mentre altre, invece, ci fanno solo perdere tempo e non ci insegnano nulla.
Io colleziono pagine belle. Anche di autori con scritture molto diverse dalla mia, anche di autori che non amo. Lo faccio perché so che mi servirà. La faccio da anni, lo farò ancora.
Ho rinunciato a cene con gli amici, a passeggiate quando arriva la primavera, o a qualche ora di sonno per leggere, scrivere, trascrivere frasi belle. Sono orgoglioso di questo.
Io credo che con tanta (ma tanta) applicazione sia più facile, poi, raccontare una storia. Non servono i complimenti degli altri, anzi: spesso sono deleteri. Siamo noi che, alla fin fine, dobbiamo imparare a giudicare la nostra scrittura, basta imparare a confrontarla con quella di chi scrive bene.
Ma c’è un capitolo che interessa agli scrittori: il proporre un proprio lavoro a una casa editrice, il farsi pubblicare per avere poi qualche riscontro (perché pubblicare con un editore a pagamento oppure pubblicare e vendere poco e un po’ come non pubblicare, anzi: spesso è meglio non pubblicare e aspettare il momento propizio).
E comunque: pubblicare, vendere, ottenere un riconoscimento è importante, certo, ma non è l’essenza.
Perché avere successo non rende felici. Vendere 150 copie o 27mila copie di un libro cambia poco: il successo non basta mai, se ne vorrebbe sempre di più.
No, l’essenza è scrivere.
Scrivere arricchisce. È come pregare nel silenzio, viaggiare in mondi lontani.
E poi scrivere aiuta a vivere. Se io sono in coda in posta o all’ospedale per degli esami o al supermercato sto meglio degli altri se nella mia testa “disegno storie”. Che potrebbero diventare storie e personaggi quando sarò davanti al computer (o al block notes: a volte scrivo ancora a mano, per non perdere l’abitudine).
Faccio cose strane, io, quando scrivo. Per esempio: devo avere la testa lavata. Devo bere tanto caffè, per mantenere una certa tensione, evitare gli sbadigli. Devo scrivere quando non ci sono rumori molesti… Accetto solo il miagolio del gatto.
Ma ognuno deve cercare la sua strada.
Le strade che possono portare alla scrittura sono tante, la mia è una, che ho cercato di sintetizzare.
Ho una certezza, però: senza scrivere non saprei vivere.
Scrivere mi serve, dicevo. Esempio. Lockdown del 2021. Esco la sera con il cane, vedo una città morta. Solo nebbia. Si percepiscono paure dietro le finestre delle case. Mi domando: “Dove vorresti essere tu?” Una domanda, certo, che possono porsi tutti. È lecita, banale. Ma per uno scrittore è cosa diversa. Risposi a me stesso: “Vorrei essere nel borgo di Orta, davanti al suo lago”.
Una volta tornato a casa, scrissi alcune pagine: sarebbero diventate il primo capitolo del mio ultimo libro (La suora).
Ecco, ricapitolando, io credo che uno scrittore debba, come ho spiegato sopra, leggere e scrivere, ma alla lettura e alla scrittura va affiancato il “terzo elemento”: osservare la vita con occhi da scrittore.
Quando quella sera di lock down mi domandai “dove vorresti essere tu?” in realtà mi stavo chiedendo: “Dove vorresti essere per raccontare una storia?”.
Chi scrive, insomma, deve avere un’altra prospettiva rispetto agli altri: la testa tra le nuvole.
Si respira meglio, lì.

 

pubblicato su Limina mundi

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