Una vita in scrittura: Marco Scalabrino

  1. Convintamente siciliano.

 Sti silenzi, sta virdura,

Sti muntagni, sti vallati,

L’à criatu la Natura

Pri li cori nnamurati.

 

Lu sussurru di li frunni,

Di lu ciumi lu lamentu,

L’aria, l’ecu chi rispunni,

Tuttu spira sentimentu.

 

Dda farfalla accussì vaga,

Lu muggitu di li tori,

L’innuccenza chi vi appaga,

Tutti pàrranu a lu cori.

 

Stu frischettu nsinuanti

Chiudi un gruppu di piaciri,

Accarizza l’alma amanti

E ci arrobba li suspiri.

E ancora:

Mi votu e mi rivotu suspirannu,

passu li notti ‘nteri senza sonnu

e, li biddizzi toi iu cuntimplannu,

mi passu di la notti ‘nsinu a jornu. 

Pi tia nun pozzu ora chiù durmìri,

paci nun havi chiù st‘afflittu cori. 

Lu sai quann’è ca iu t’aju a lassari?

Quannu la vita mia finisci e mori.

E inoltre:

Marini suli coppuli lupara

bagghi templi canzuni marranzanu

cuscusu pisci pupi petra-lava…

facissivu bonu a scurdarivilli!

 

Curcatu nna la storia d’un paisi

unni sparti un cumuni patrimoniu

di sangu di lingua e di civiltà

c’è un populu chi sonna di scuddàrisi

lu jugu rancitusu chi l’appuzza.

 

Nun la svigghiati cu la scusa: – è tardu! –

Sicilia accomora cridi a li sonni.

Sono tre passi, rispettivamente, del vate palermitano Giovanni Meli, della migliore tradizione popolare siciliana e di un autore contemporaneo.

Ecco, non avrei potuto iniziare a parlare della mia officina scrittoria se non a partire dalla mia terra, dalle mie radici, dalla mia lingua; e come meglio se non per voce dei poeti (di taluni di loro ovviamente) che la mia Sicilia da sempre hanno celebrato. Certo sono unicamente tre sparuti esempi, peraltro differenti fra loro per collocazione temporale, per scansione metrica, per taglio contenutistico; ma, nella loro quasi complementarietà, sono emblematici della composita realtà siciliana.

Questa schematica prolusione ci catapulta già nel nocciolo dell’odierna nostra chiacchierata. Una prolusione proficua, mirata, perché da essa traspare distintamente la principale combinazione a fondamento dei miei interessi culturali: la Sicilia nella sua interezza di natura, storia, arte, cultura, folklore, costume e, nello specifico, il dialetto siciliano e la poesia in dialetto.

Glissiamo sulla vexata quaestio lingua o dialetto ma, a onore del vero, non possiamo né vogliamo sottacere circa lo stato attuale nel quale versa il dialetto siciliano. Esso difatti, secondo uno studio recente dell’Unesco, è una lingua che rischia di scomparire entro la fine del corrente secolo. Un tempo lingua molto utilizzata – tant’è, affermava il Centro Ethnologue di Dallas, che si poteva parlare di parlanti bilingui –, esso è oggi un idioma che giorno dopo giorno va perdendo i pezzi, che paga un prezzo salatissimo alla scienza, alla tecnologia, alle contaminazioni. Nel volgere del Novecento e in questo inizio del terzo Millennio, in Sicilia si sono alternate le civiltà rurale-artigianale e quella finanziaria-industriale, entrambe a loro volta soppiantate dalla civiltà mediatica-globale. L’uomo per conseguenza cambia (nella quotidianità, nello stile, nella tensione ideale) e la lingua (che l’uno e l’altro, il mondo e l’uomo, è chiamata a rappresentare) deve fare di continuo i conti col proprio ultra-millenario spendersi, col fronte magmatico dei “tempi moderni”, con l’arrembante tecnicizzazione e inglesizzazione. È d’uopo perciò, ne va della stessa sua sopravvivenza, che si attrezzi, si espanda, si adegui.

E allora?, mi si potrebbe ragionevolmente obiettare. Allora – è presto detto – non sono stato io a scegliere il dialetto; è stato lui che ha scelto me! La prima lingua che ho ascoltato, la prima lingua che ho imparato, la prima lingua con la quale ho interloquito con i miei simili è stata la parlata siciliana della mia città; la lingua d’‘a minna (la lingua del seno materno), come l’appellò il poeta ramacchese Vito Tartaro. È stato un atto naturale; nessuna strategia, nessuna forzatura è stata praticata. L’italiano l’ho appreso dopo, a scuola; l’italiano si è sovrapposto al dialetto, si è imposto sul dialetto, si è sostituito al dialetto. Per lunghi anni è stato così. Poi (d’un tratto?) il dialetto – evidentemente mai del tutto piegato, mai del tutto sconfitto, mai del tutto sbaragliato ma solamente sopito, ingabbiato, proscritto – s’è presa la sua rivincita! S’è scrollato di dosso decenni di abbandono, di negazione, di rifiuto e, in tutta la sua bellezza, dovizia, duttilità, nel rigoglio delle sue nobili radici greche, latine, arabe… si è fatto, si è elevato, si è eletto, prepotentemente, a lingua della mia poesia. Mi viene in proposito da considerare che sono in buona sostanza bilingue, ho adeguata competenza in entrambi i registri linguistici; perché mai, arrendendomi peraltro a una devastante sudditanza culturale in voga, dovrei rinunciare a uno di loro, a quello per giunta che più mi appartiene, a quello al quale più appartengo? D’altronde, sappiamo bene, la bontà di ciò che si dice/scrive non insiste per assioma sullo specifico codice di comunicazione che si adopera quanto sulla qualità intrinseca del pensiero che esso esprime e sulla forma che tale pensiero assume.

Si situa in quest’ambito, rientrando nel merito del nostro conversare, la poesia dialettale. In ciò peraltro confortato dall’assunto di Giovanni Vaccarella: “La poesia dialettale oggi è poesia di cose e non di parole, è poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di evanescenza”. Oltretutto – rileva con acume Antonio Corsaro – “i dialettali non sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se disuguale è il loro piano di risonanza”. Dialettale o meno – vi aggiungerei – oggi più che mai il poeta è cittadino del mondo. Egli dunque, come tutti e ciascuno, ha il dovere della responsabilità; il poeta, i poeti non possono e non debbono permettersi il lusso di essere estranei alle vicende sociali e politiche né del loro proprio paese né del mondo intero. Il futuro dell’uomo e quello del poeta sono indissolubilmente legati; se il mondo crolla crolla per tutti, lui compreso.

Quanto a me, affidata “ai posteri l’ardua sentenza”, scrivo in siciliano perché il mio sentire è siciliano, i miei pensieri nascono in siciliano, il mio animo è profondamente, convintamente siciliano.

  1. Termini tutti del dialetto siciliano.

Taluni lettori hanno creduto di ravvisare nei meandri dei mei testi, oltre che le avvisaglie di uno sperimentalismo, una sorta di ricerca linguistica, di recupero di parole inseguite nelle profondità glottologiche, di ripescaggio di voci portatrici di echi lontani, intese a comporre una partitura ricchissima ma, giustappunto per ciò, in quei tratti desueta.

Proverò succintamente a replicare nei capoversi seguenti a tali legittime valutazioni, in premessa a tal fine avvalendomi di una valutazione di Flora Restivo Cugurullo: “L’incessante studio sulla parola, il rispetto per la materia scelta come mezzo espressivo, uno spinoso lirismo… compongono un canovaccio, una storia con un fil rouge che è l’uomo, il bene e il male, i complessi rapporti che ne seguono, il cui percorso spazia nella storia e nella cronaca, nel passato e nel presente, nelle mille ambivalenze del reale e nelle sue contraddizioni”. E prosegue: “Un lavoro svolto con amore e per amore di un poiein in grado di proporre moduli espressivi inconsueti e impegnativi, schemi variegati fino alla corrosività, insoliti nell’ambito della forma, delle strutture semantiche, del metodo di esprimere i contenuti, capace di mantenere intatti nel tempo senso e valore al fine di dare l’adeguato risalto alla nobiltà e alla qualità della scrittura in dialetto, innegabilmente singolare e anticonformista e, altrettanto innegabilmente, impastata di cristallina sicilianità”.

Tanto asseverato riconosco, sì, che il linguaggio da me schierato può profilarsi, nel suono e nel senso, di primo acchito poco comprensibile. Ciò perché, nel mio impari cimento con l’atto della creazione, sono andato a ricercare nelle vastissime plaghe del dialetto le parole, le locuzioni nominali, verbali, aggettivali, giusto quelle e non altre, che potessero al meglio rendere i concetti e i frangenti che esso andava a veicolare, che potessero costruire una sintassi di immagini atte a ri-creare non solo il senso ma anche il “tono” del mio pensiero. Ebbene, riguardo a ciò, probabilmente, esso esorbita quello comunemente spacciato nella esangue e frettolosa prassi quotidiana. Una precisazione tuttavia, al fine di evitare di incorrere in facili equivoci e di scongiurare erronee impressioni che potrebbero derivarne e a beneficio soprattutto di coloro non iniziati alle finezze linguistiche, è doverosa. In effetti io non pratico e non adopero parole rare o desuete, arcaiche o dismesse. Tutti i miei termini sono frutto di una lunga, assidua, entusiasta frequentazione del dialetto, di ieri e di oggi, dell’occidente e dell’oriente dell’Isola, degli studi dei testi di quei poeti, letterati, cultori che nel tempo, nei secoli ormai, al nostro dialetto hanno votato le loro esistenze. E pertanto, essi sono termini tutti del dialetto siciliano; termini, come poc’anzi detto, che al meglio realizzano il mio pensiero.

Quanto al presunto “sperimentalismo”… non mi attarderò in affannose smentite. Semplicemente, in tutta franchezza, oppongo che quei componimenti “incriminati”, nella fattispecie una esigua falange di testi inclusi ne La Casa Viola (questa, la mia quarta silloge, datata 2010, ritengo rappresenti una tappa importante del mio itinerario poetico ed estetico iniziato oltre dieci anni prima con Palori) quali: .Puntu. .niuru., Supra e sutta, Faddacchi, Palluni, Ctrl+alt+canc e qualche altro, dai moduli espressivi inconsueti, non sono stati affatto deliberatamente coniati così, non sono stati volutamente costruiti al fine di apparire a motivo della loro inusitata (almeno per la poesia siciliana) disposizione del nero dell’inchiostro sul paglierino della pagina, non sono stati vergati in siffatta maniera col calcolato proposito di “acchiappare” per la loro singolare impalcatura. L’atto topico, il momento del concepimento è (inequivocabilmente) anteriore a quello della scrittura! Va da sé, quindi – lo affermo senza timore alcuno di espormi – che sono stati loro, i versi, quegli stessi versi e non altri, proprio quei componimenti e non altri, a richiedere, a esigere, a impormi quella forma, quella scansione, quegli “artifici”; la mano, la penna, la tecnica si sono solo messi al servizio, hanno unicamente eseguito, sono stati in virtù di santa obbedienza arrendevoli. Agli occhi di quanti – per le comuni affinità – nel leggere comprenderanno, questi miei faticosi tentativi di spiegazione risulteranno del tutto superflui, goffi, fuori luogo; quanto agli altri… confido nel loro munifico credito.

  1. Non teme tenzone.

Siffatto dialetto pertanto – e ci accostiamo così al secondo risvolto del mio lavoro, la traduzione – non teme tenzone.

Ci inoltriamo in argomento e scorriamo assieme tre miei adattamenti in dialetto siciliano; nell’ordine: A poem is a city / Na puisia è un paisi di Charles Bukowski, Dippold, the optician / Dippold, l’ucchialaru di Edgar Lee Masters, A few words on the soul / Qualchi palora ncapu a l’anima di Wislawa Szymborska:

Na puisia è un paisi

Na puisia è un paisi chinu di strati e chiàvichi,

chinu di santi e d’eroi, di minzugnari e ciriveddi pirciati,

di cosi pistati e ripistati e di vinu di taverna

e di chiuvuti e saitti quannu no di siccarizzu;

na puisia è un paisi ’n guerra,

un paisi chi addumanna un ruloggiu di pirchì,

un paisi chi abbrucia e feti,

cu li pistoli sempri sfurrati

e li putìi di li varveri vunci di cinici allitrati;

na puisia è un paisi unni Diu va a cavaddu

pi li chiani nudu comu a Lady Godiva,

unni li cani abbàianu a la notti e assicùtanu

la bannera; na puisia è un paisi di pueti,

li chiù fatti cu lu stampu mmiriùsi e muzzicunari;

na puisia è stu paisi astura,

50 mìgghia arrassu di nuddu postu,

a li 9 e 9 di matina,

sapuri di licori e sicaretti,

nenti sbirri né nnamurati pi li strati…

sta puisia, stu paisi, li porti chiusi,

attangati, quasi un sdisertu

bisitusu e senza lacrimi,

jornu pi jornu chiù cainu e vecchiu,

muntagni di mazzacani e sciara,

l’oceanu na vasca-bagnu fumanti,

la luna na casa di villiggiatura,

na musica surda di li finestri rutti…

na puisia è un paisi, è na nazioni, è lu munnu…

E mentri, biccheri doppu biccheri,

agghiummunìu tuttu chissu

pi lu benistari di dda testa gluriusa di l’edituri,

la notti è a nautra banna

fimmini grici e fracchi su’ alliniati addritta,

un cani appizza appressu a nautru cani,

trummetti sturdinu l’aricchi

e ominicchi carcarìanu di cosi

chi mai e poi mai ponnu fari.

 

Dippold, l’ucchialaru

 

Zoccu vidi?

Baddi russi giarni e viola.

Un mumentu. E ora?

A me patri, a me matri e a li mei soru.

D’accordu. E ora?

Cavaleri armati, beddi dami e facci leti.

Prova chisti.

Frumentu a scialacori – un paisi.

Appostu. E ora?

Fìmmini cu l’occhi chiari e labbra aperti. 

Prova st’autri.

Un biccheri supra un tavulinu.

Canciamu vitra.

Un spaziu vacanti – nenti di spiciali.

E ora?

Arvuli di pinu, un lacu, un celu di staciuni.

Va megghiu. E ora?

Un libru.

Leggiminni na pagina.

 E comu fazzu? Li pagini mi svirtìcchianu sutta l’occhi!

Nzaia st’autru paru.

Mulineddi d’aria.

Appustuni. E ora?

Luci, sulu luci chi cància tuttu lu munnu a jocu.

Ci semu! Su’ chissi l’ucchiali chi avemu a fari. 

 

Qualchi palora ncapu a l’anima

 

L’anima niatri ci l’avemu di tantu in tantu;

  nuddu mai ci l’avi di cuntinuu.

Li jorna e l’anni

ponnu passari comu nenti senza di idda.

 A li voti si ferma p’un pizzuddu nna la carusanza;

autri voti ni veni a truvari di vulata nna la vicchiaia.

Di raru ni duna na manu cu li camurrìi:

tipu quannu sturnamu, quannu semu càrrichi di valigi

o quannu caminamu cu li scarpi chi ni macirìanu li pedi.

E propriu si canzìa siddu avemu a capuliari la carni

o ni tocca jìnchiri fogghi e fogghi di carti bullati.

  Ntra milli discursi chi facemu

idda s’apprisenta sì e no nna unu, e mancu sparti,

pirchì prifirisci lu silenziu.

Ci veni lu sustu a vìdirini, nna la fudda,

trafichiari bazzarioti abbasta chi ci nesci un sgobbu

e quannu lu ciriveddu ni scoppia

ni saluta e si la scoffa.

Pirchì ci abbutta.

E siccomu lu preju e lu siddìu

nun su’ pi idda sintimenti sparaggi

sta cu niatri sulu quannu chissi dui su’ tutta na cosa.

Ci putemu fari cuntu

siddu capita chi semu chiù cunfusi chi pirsuasi

e però la curiusità n’arrùsica

e, ntra li cosi di stu munnu,

nesci foddi pi li ruloggi a pènnulu e li specchi

chi sgobbanu puru quannu nuddu li talìa.

Nun dici mai di unni veni       

né quannu né pirchì si cogghi li pupi,

ma sutta sutta spinna chi ci lu dumannamu.

Cuttuttu pari chi niatri avemu bisognu di idda

almenu quantu idda di niatri.

 “Un concetto – assevera Attila József – è lo stesso sia per un filosofo cinese che per uno ungherese o inglese. Chiunque può esporlo con le proprie parole. Il concetto quindi, in quanto spiritualità, è dell’umanità intera. Ogni filosofia infatti è traducibile in ogni lingua, perché importante è che vi sia concordanza concettuale, non verbale e se in una lingua non vi fosse una parola specifica per un concetto, noi possiamo sempre parafrasarlo ed esprimerlo, ciò nonostante, perfettamente”.

La traduzione di poesia è un’operazione delicata e complessa, che implica problemi teorici e pratici non sempre di facile soluzione. Ho affrontato l’attività di traduzione dopo accurati studi e dopo avere fatto miei parecchi degli assunti che nel tempo ho appreso. Luca Guerneri rilevò che “il confronto con l’altra lingua diventa spesso un braccio di ferro con la propria”; Alba Olmi che “si tratta di una trasposizione di testi, non di parole o frasi, da una cultura all’altra e che è l’opera stessa da tradurre a suggerirci i percorsi”; Paul Ricoeur che “il traduttore forza la propria lingua a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella sua lingua materna… perché non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma le sintassi non sono equivalenti, l’andamento delle frasi non veicola le stesse eredità culturali”. Tradurre poesia è dunque (per me) impresa nella quale, per quanto impegnativo, è gratificante e perentorio riuscire. Ciò perché la traduzione, questo genere letterario a sé, è per forza di cose re-invenzione in certa misura del testo originale, è un passe-partout che ci introduce a un inusitato trip letterario, è uno star-gate che ci spalanca l’altrui universo. Un universo composito, intriso di fantasia e parimenti radicato nella attualità, crudo e allucinante e altresì tenero e sognante, un universo che se per taluni caratteri rinveniamo sotto casa per taluni altri ci svela spaccati, scene, luoghi esoterici, misteriosi, mitici: la poesia di ogni latitudine, di ogni lingua, di ogni vocazione. Gli esiti non lascino trasparire il lungo studio e il grande amore che sono stati necessari, i vantaggi e gli svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra, l’iniziativa personale richiesta al traduttore e induca anzi il lettore alla considerazione che le poesie sembrano essere state concepite, nel nostro caso, in siciliano.

La mia attività di traduzione coincide con un’opera di promozione scaturita da una consapevole assunzione di responsabilità nell’implicito giudizio positivo di poeti senza limiti geografico-temporali e linguistici. Autori che si collocano dalla classicità, Orazio e Catullo, con un smisurato balzo, ai nostri giorni, taluni addirittura viventi: Peter Thabit Jones, Iacyr A. Freitas e Jacques Thiers; autori di disparate regioni dell’Europa e delle Americhe: Peter Russell, George Bacovia, Nat Scammacca, Horacio Castillo; alcuni planetariamente noti: Charles Bukowski, Edgar Lee Masters, Wislawa Szymborska, fianco a fianco ad altri scarsamente conosciuti o pressoché sconosciuti in Italia: Duncan Glen, Paul Snoek, Robert Garioch e Hugh Mac Diarmid. Tutti autori nondimeno di spessore, di valore, che trovano, mediante il mio devoto tributo, una piccola ribalta, un’angusta finestra tramite la quale affacciarsi ed entrare a far parte della cultura siciliana. Le mie traduzioni – preferisco però che le si appellino adattamenti – si propongono di restituire l’inconfutabile nobiltà, la straordinaria contemporaneità pur nella millenaria storia, l’innegabile capacità del dialetto siciliano di confrontarsi tuttora a testa alta, in tutta dignità, armonia, compiutezza, con ogni altra lingua, cultura, civiltà del nostro pianeta. Oltretutto, “Tradurre poesia – attestò Eugenio Montale – è uno dei possibili modi di fare poesia”.

Beninteso, imprescindibili mi sono stati i compagni di viaggio nei quali nell’arco della mia trafila letteraria, fortuitamente o intenzionalmente, mi sono imbattuto, i preziosi rapporti instaurati e nel corso di lunghi anni rinsaldati con tanti validissimi autori di altre lingue, di altre nazionalità e di altre sensiblità sia nella vecchia Europa che nelle due Americhe.

  1. Una mole ragguardevole.

Direi adesso di porre un argine al viaggio fra le “cose” di mia pertinenza e di concludere con uno stralcio dai saggi; la saggistica difatti costituisce la terza e ulteriore branca del mio lavoro. Come è successo che vi sia approdato? Cresceva spontaneamente dentro me, man mano che andavo scoprendo, man mano che andavo leggendo, man mano che andavo studiando quei poeti (i nomi di una parte dei quali a breve menzioneremo), una irrefrenabile curiosità, una sana voglia di saperne di più, un reale interesse all’approfondimento. Fu così che una traccia dopo l’altra, uno studio dopo l’altro, un anno dopo l’altro un bel giorno mi sono ritrovato in libreria una ragguardevole – in quantità e in qualità – mole di documentazione, acquisita dalle più svariate fonti: le riviste, le frequentazioni letterarie, le biblioteche; materiali che nel tempo, singolarmente, videro luce qua e là su periodici nazionali di settore. “Perché – mi venne un bel dì suggerito – non ne rivedi alcuni nell’ottica di una raccolta unitaria da pubblicare?” In verità non vi avevo mai pensato anche perché, trattandosi perlopiù di autori di fine Ottocento e grosso modo della prima metà Novecento e per giunta in dialetto siciliano, non credevo potessero appassionare tanti oltre che gli addetti ai lavori. Raccogliendo ciò malgrado la sfida, allestii la raccolta, mutuando un passo dalla corrispondenza fra Alessio Di Giovanni e Silvio Cucinotta la denominai Parleremo dell’arte che è più buona degli uomini e, per una fortunatissima congiuntura, la proposi alquanto titubante a un illuminato editore lombardo il quale, senza indugio alcuno, piacevolmente stupendomi, accettò di pubblicarla.

Il Rinnovamento della poesia dialettale siciliana, la stagione tra il 1945 e la seconda metà circa degli anni Cinquanta (l’ultima manifestazione pubblica del Gruppo Alessio Di Giovanni – attesta Salvatore Di Marco – si svolse nell’anno 1958 presso il Circolo di Cultura di Palermo, diretto da Lucio Lombardo Radice, che promosse un seminario sulle correnti contemporanee della poesia siciliana), stagione segnata dal movimento di giovani poeti dialettali palermitani e catanesi, fu rinnovamento fondato sui testi e non sugli oziosi proclami, sugli esiti artistici individuali e non su qualche manifesto. Se ne danno di seguito rapidi cenni.

Alla scomparsa di Alessio Di Giovanni, nel 1946, ci ragguaglia Paolo Messina, “quel primo nucleo di poeti che comprendeva le voci più impegnate dell’Isola prese il nome del maestro e si denominò Gruppo Alessio Di Giovanni”. Il Gruppo si denominò Alessio Di Giovanni ma non trattò, come lui, delle voci del feudo né dei derelitti di solfara, non professò alcun francescanesimo, non si rifece al Verismo ormai posto in archivio, né si riconobbe nel Felibrismo, del quale Alessio Di Giovanni fu, su designazione di Frédéric Mistral, “ambasciatore” in Sicilia. La guerra, con tutto il suo funesto bagaglio, aveva stravolto la realtà e con essa la poesia dialettale siciliana. Ecco allora l’esigenza di porsi in maniera nuova al cospetto di esse e la nascita, nel 1945, su queste basilari premesse, del movimento del Rinnovamento della poesia dialettale siciliana.

Composto, sottolinea Salvatore Di Marco, “da poeti di generazioni differenziate, ma tutti animati dal proposito di svecchiare, nel linguaggio, nello stile, nei contenuti, la poesia dialettale siciliana”, il Gruppo non fu un corpo unico, un’orchestra che ha eseguito un identico spartito, una scuola poetica e le esecuzioni furono, piuttosto che dei concerti, degli assolo, dei recital di singoli virtuosi. La circostanza è peraltro testimoniata dagli stessi protagonisti; Pietro Tamburello: “sappiamo tutti dove andare, ma non siamo concordi sulla via da seguire”, e Paolo Messina, che pure attribuisce al Gruppo l’adozione di un “indirizzo generalizzato sul problema dell’unità linguistica siciliana”, rimarca che “il Gruppo non si configurò in chiave di omogeneità, l’univocità di intenti fu pronunciata con voci diverse. Di Alessio Di Giovanni – prosegue – avevamo adottato il rigore formale della scrittura, una scrittura di scrupolo filologico, improntata all’etimo e alla consuetudine letteraria, e per quanto riguarda le poetiche scegliemmo l’onda della poesia europea più avanzata, specie quella francese, con una propensione per il surrealismo, la poesia pura e il verso libero”.

Abbiamo la data dell’inizio del movimento rinnovatore, quella del Primo raduno di poesia siciliana svoltosi a Catania il 27 ottobre 1945, ma… cosa è stato il “Rinnovamento”? Chi ne costituì il movimento? Quale ne fu il programma? In sostanza, di che si tratta? “Tra la fine del ’43 e l’inizio del ’44 – apprendiamo da Paolo Messina nel saggio La Nuova Scuola Poetica Siciliana, del 1985 – la guerra continuava e doveva continuare ancora per un anno. Risaliva la penisola, e in Sicilia per primi avevamo respirato, l’acre pungente ciauru [profumo] della libertà, mentre il quadro prospettico del mondo già mutava radicalmente. Da qui l’esigenza di rifondare non solo la società civile, ma anche il linguaggio”. A Palermo Federico De Maria venne a trovarsi a capo di un nucleo di giovani poeti dialettali: Ugo Ammannato, Miano Conti, Paolo Messina, Nino Orsini, Pietro Tamburello, Gianni Varvaro e, nell’ottobre 1944, venne fondata la Società degli Scrittori e Artisti di Sicilia. Sul versante ionico peraltro, nella Catania del ‘44, il gruppo del quale Salvatore Camilleri era l’animatore: Mario Biondi, Enzo D’Agata, Mario Gori e altri già appartenenti all’Unione Amici del Dialetto, si ribattezzò Trinacrismo. “Il dialetto – dichiara Paolo Messina nel saggio sopra citato – era per noi un modo concreto di rompere con la tradizione letteraria nazionale. Naturalmente, eravamo consapevoli dei rischi dell’opzione dialettale, che se da un lato ci portava alla suggestione della pronunzia, dall’altro restringeva alla Sicilia il cerchio della diffusione e della attenzione critica. Ma in compenso ponevamo l’accento sull’ispirazione popolare del nostro fare poesia, che doveva farci cantare con il popolo che per noi era quello siciliano, come siciliano era il nostro punto di vista sulla nuova società letteraria nazionale”. Da qui la nozione dell’impegno [che non ammette – preciserà – alcuna dipendenza politica] inteso come “partecipazione, anche coi nostri atti di poesia, alla costruzione di una società libera e giusta, cosciente ormai di potere progredire solo nella pace e nella concordia fra i popoli”. “Il dialetto – riprende sul pezzo in memoria di Aldo Grienti – non era più portatore di cultura subalterna, ma si era innalzato alla ricerca di contenuti (e quindi di forme) su più vasti orizzonti di pensiero. Sicché la poesia siciliana toccava il punto di non ritorno, aboliva ogni pregiudiziale etnografica pur restando linguisticamente siciliana. I maestri preferimmo andarceli a cercare altrove”, nella poesia francese e nelle avanguardie europee.

“Negli anni Cinquanta c’era a Palermo – registra Salvatore Di Marco –, in via Roma quasi all’altezza dell’incrocio con il Corso Vittorio Emanuele, uno dei caffè Caflish. Al piano superiore, una saletta con sedie e tavolini. Ebbene, in quel luogo e per anni – sicuramente dal 1954 al 1958 – nella mattinata di tutte le domeniche si riunivano i poeti del Gruppo Alessio Di Giovanni. Frequentatori erano, oltre a chi scrive, Ugo Ammannato, Pietro Tamburello, Miano Conti, Gianni Varvaro e altri. Vi arrivavano spesso Ignazio Buttitta da Bagheria, Elvezio Petix da Casteldaccia, Antonino Cremona da Agrigento e da Catania Carmelo Molino e Salvatore Di Pietro: insomma, i personaggi più significativi allora della nuova poesia siciliana. In quegli incontri si leggevano poesie, si parlava del dialetto siciliano, si discuteva di letteratura e di politica”.

Aldo Grienti e Carmelo Molino furono, nel 1957, i curatori dell’antologia Poeti siciliani d’oggi, Reina Editore in Catania. Essa raccoglie, in rigoroso ordine alfabetico, una qualificata selezione dei testi di 17 autori: Ugo Ammannato, Saro Bottino, Ignazio Buttitta, Miano Conti, Antonino Cremona, Salvatore Di Marco, Salvatore Di Pietro, Girolamo Ferlito, Aldo Grienti, Paolo Messina, Carmelo Molino, Stefania Montalbano, Nino Orsini, Ildebrando Platamia, Pietro Tamburello, Francesco Vaccaielli e Gianni Varvaro. Ma già prima, nel 1955, aveva visto la luce a Palermo l’antologia Poesia dialettale di Sicilia. Protagonisti il Gruppo Alessio Di Giovanni: U. Ammannato, I. Buttitta, M. Conti, Salvatore Equizzi, A. Grienti, P. Messina, C. Molino, N. Orsini e P. Tamburello. Le due sillogi, che ebbero al tempo eco nazionale e sono tuttora note agli appassionati, sono state antesignane del Rinnovamento della poesia dialettale siciliana.

Chiudo questa chiacchierata ringraziandovi sentitamente per la cortese attenzione prestatami nonché per la graditissima considerazione riservata al mio lavoro e per avermi graziosamente voluto concedere questo spazio.

Trapani, agosto 2022                                                        Marco Scalabrino

Pubblicato su limina mundi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *