Riflessioni sulla poesia di Alfredo Panetta – Una vita in scrittura

panetta

per “una vita in scrittura” ho rivolto l’invito ad  Alfredo Panetta che lo ha interpretato come segue e che ringraziamo per il suo interessante  contributo. Antonella Pizzo

 Una vita in scrittura 

Riflessioni sulla poesia di Alfredo Panetta

Cosa non è poesia? E quanto contano i luoghi per diventare poeti? Parto da questi due cippi per raccontarmi. La seconda domanda è più facile, la prima è a forte rischio retorico. Proverò ad evitare la trappola dell’elenco. Mi sento fortunato, ho vissuto due vite diametralmente opposte. La prima in un paese sperduto delle colline joniche calabresi, la seconda nell’unica metropoli italiana. Dall’innesto tra questi due luoghi si è concretizzata la mia poesia. Oggi non saprei immaginarmi privo di versi. Almeno uno al giorno, un piccolo mattoncino. Ma torniamo ai luoghi, ai contrasti. Per scrivere ho bisogno di concretezza, di materia che scintilli. Mi serve la terra per immaginare il volo. Mi serve l’odore del cemento per innescare la potenza della memoria. Mi servono i tondini arrugginiti, le crepe sui muri, il profumo di elicriso per raccontare la tragedia del ponte Morandi. È come se, per scrivere, abbia bisogno dei miei strumenti acquisiti nei primi anni di vita. Mi sento un artigiano (lo sono per guadagnarmi da vivere) delle parole, le mie parole. E in questo bagaglio ben fornito è necessaria la parlata dialettale. Il dialetto mi fa stare a casa, ovunque sia. È il mio amico intimo, l’energia che mi sostiene, l’amante che non pretende nulla. Dialetto e italiano lavorano a braccetto, nessuna antipatia. Le mie non sono versioni ma riscritture. I testi devono funzionare in entrambe le lingue. Il dialetto mi permette di mantenere uno sguardo vergine sulla realtà, mi costringe a guardare da vicino le cose, a chiamarle col loro nome. La parola e la cosa coincidono.

Ho scritto cinque libri in 20 anni. Nei primi ho ricostruito il mio borgo, ho ridato vita a persone, paesaggi, animali, emozioni (Pethri ‘i limiti, Pietre di confine, Moretti & Vitali, 2005 la mia prima raccolta).  Un lavoro sulla memoria in cui ho cercato di evitare la retorica della nostalgia, mettendo in evidenza gli aspetti crudi, faticosi ma anche lirici di un mondo rurale ormai in agonia. Successivamente ho raccontato l’emigrazione, non solo mia. Necessario un nuovo sguardo, primordiale o disincantato, sulla città. Una città che offre tantissimo ma altrettanto chiede. Una città, Milano, che non ringrazierò mai abbastanza. E, nell’ultima fase del mio percorso poetico, la poesia cosiddetta civile. La tragedia del ponte Morandi (Ponti sdarrupatu, Il crollo del ponte Passigli, 2021) l’ultima fatica; e attualmente un progetto su alcuni delitti di ndrangheta. Nel frattempo, assieme alla poetessa lombarda Giovanna Sommariva, è in punto di arrivo un lavoro a quattro mani sull’emigrazione dei giorni nostri. Questo, in sintesi, il mio cammino da poeta. Cammino, ci tengo a dire, sempre accompagnato da importanti letture, non solo poetiche naturalmente. E suffragato da una innata curiosità verso tutto ciò che si muove o sta fermo. Tutto quello che esiste m’interessa. Ritengo altresì che lo studio della parola vada di pari passo con l’atto creativo. Lettura significa anche gioia, godimento della bellezza; la lettura è un dono della vita che ci rende fecondi. E terminiamo con la risposta al primo quesito. Penso che ci sia molto di non poetico al mondo d’oggi. Il volgare non è poetico, la saccenza tanto meno. L’avido è lontanissimo dalla poesia, il violento e il tracotante e l’ignorante. L’indifferenza che si può raccogliere con le gerle per strada non è poesia. Molto umano ha perso, se mai ha avuto, la poesia. Sembra che l’umano abbia urgenza di spogliarsi di ogni parvenza di poetico. Solo l’infanzia riesce a salvarsi e talvolta l’età matura. Poi ci sono, naturalmente, le eccezioni. Però il quadro mondiale è tinto di grigio. E allora meglio concentrarsi sul micro, sugli animali, sul verde della natura,  sui rumori della città, sulle cose inanimate (Chi può dire, tra l’altro, che le cose non abbiano un’anima?). Lo so, come avrete notato, sono caduto nella trappola dell’elencazione, ma tant’è. E forse anche in un tantino di retorica ma va bene ugualmente. Ho un’età, posso permettermelo, forse. Per finire, malgrado i tentativi di volgarizzazione e banalizzazione planetari, credo ancora nel potere della parola poetica. Purché ci sia dietro un grande lavoro di studio e approfondimento e davanti una visione, magari non nitidissima, ma potente e fortemente motivata.

Alfredo Panetta è nato nel 1962 a Locri (R.C.). Nel 1981 si trasferisce a Milano dove tuttora vive e lavora nel settore infissi in alluminio. Scrive nella lingua madre, il dialetto calabrese del basso ionico reggino. Suoi testi sono apparsi su varie riviste tra le quali Nuovi Argomenti, Tratti, Il Segnale, Capoverso, La Mosca di Milano, Gradiva. Vincitore del premio Montale Europa per inediti nel 2004, con il suo primo libro, Petri ‘i limiti (Pietre di confine, Moretti& Vitali, 2005) si è aggiudicato i premi Albino Pierro, Lanciano-Mario Sansone e  Rhegium Julii. Nel 2011 è uscita la sua seconda raccolta Na folia nt’è falacchi (Un nido nel fango, Edizioni CFR) vincitrice del premio Pascoli. E’ del 2015 la  raccolta Diricati chi si movinu (Radici Mobili, Ed. La Vita Felice). Nel 2018 pubblica il suo ultimo lavoro, Thra sipali e sònnura (Tra rovi e sogni, Ed. Punto e a capo)  Tra i concorsi vinti con poesie singole o con sillogi: i premi Lago Gerundo, Noventa-Pascutto, Guido Gozzano. E’ membro di giuria dei premi letterari “Città di Galbiate” (LC) e “Daniela Cairoli” (CO).  In una scuola primaria di Lecco coordina un laboratorio di composizione poetica.

pubblicato su limina mundi

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