Il fetore del passato

Sono figlia di emigranti ma non troppo, i miei provenivano da un paese distante solo 40 chilometri dal paese in cui si sono stabiliti subito dopo la mia nascita. Cambiava la provincia e assieme alla provincia cambiavano tutte le tradizioni, principalmente quelle culinarie. Mio padre è rimasto orfano da ragazzo, la madre era di Salerno, figlia di un tizio benestante che possedeva un pastificio, pare sia stata diseredata  perché ha avuto tre figli con mio nonno fuori dal matrimonio. Lui  era guardia carceraria e fino a 27 anni, come credo avvenisse  anche per i carabinieri, non li facevano  sposare. Così mi è stato raccontato, anche se non so se corrisponde al vero. Mi è stato anche raccontato che una volta un ergastolano gli aveva rivelato il luogo dove aveva nascosto un grande tesoro,  leggasi bottino. Il posto si trovava in Sardegna, mio nonno però non andò mai a controllare. Ma perché non è andato? Non  si fa così! Si va in Sardegna, si cerca il luogo, si scava, si trova il tesoro e si diventa ricchi fino alla settima generazione. Invece no, non andò.  Comunque questa è un’altra storia.

Mio nonno, rimasto vedovo, quando tornò a vivere al paese in Sicilia, aprì una trattoria dove mio padre imparò a cucinare. Così a casa nostra mio padre cucinava in modo superbo i piatti della sua tradizione, faceva la gelatina di maiale partendo dal maiale, la gelatina vera, non quella di ora che si fa con la bustina. La faceva con le orecchie e il piedino del porco, ogni tanto in mezzo alle cartilagini e la carne si trovava qualche pelo del porco medesimo. Sapeva fare le polpette e magnifiche arancine, cucinava il fegato e tutte le interiora, meusa, rognone  e polmone con la cipolla, cucinava la trippa e amava molto il pesce, principalmente sarde, seppie, calamari, tutti pesci poveri, tutta cucina povera. Ad esclusione delle polpette, le arancine e il pesce, i piatti di mio padre in casa li mangiavo solo io, in famiglia si rifiutavano di mangiare trippa, polmone e cartilagini di porco. Mia madre, invece, cucinava sui generis, delle cose semplici, a volte un po’ scialbe, minestre, legumi, pasta e broccoli, pastina con il brodo di carne, pasta con la ricotta, cose di mamma. Quando ero piccola abitavamo in periferia al secondo piano di una palazzina di tre, ogni piano c’erano tre appartamenti di diverse misure, grande, medio, piccolo. Al secondo piano nell’appartamento piccolo contiguo al nostro, che era grande, viveva la  vecchia. La vecchia si chiamava la vecchia, aveva il suo nome e il suo cognome come tutti, ma tutti nel quartiere la chiamavamo La vecchia. La vecchia era bassa di statura, aveva i capelli bianchi pettinati a treccia attorcigliata attorno alla testa, vestiva di nero e quando usciva si copriva la testa e il corpo con un grande sciallo nero con le frange lunghe. Era un sorta di soprabito di seta o di lana, io ne ho ereditato un paio da una prozia di mio marito.  Lo toglieva solo in casa.  La vecchia vestiva di nero perché era vedova, in effetti non ricordo se fosse veramente vecchia, magari aveva solo 50 anni, ed era una giovane donna, non saprei. So che la vecchia aveva un figlio che le camminava sempre un passo dietro, non parlava mai con nessuno e ubbidiva sempre ai suoi ordini. In giro si raccontava che la vecchia aveva un altro figlio. Era rinchiuso in carcere ,  condannato all’ergastolo. Era un militare medico che aveva ucciso l’amante della moglie facendogli, durante una vista medica, un’iniezione contenente un liquido letale.  Questa storia di una vecchia che aveva un figlio assassino e un figlio che non parlava mai, faceva della vecchia un’icona, un personaggio particolare, che ci incuriosiva tutti nel quartiere e nello stesso tempo ci terrorizzava. Durante la Pasqua la vecchia, che era ragusana, cucinava giustamente i piatti di Ragusa. Il piatto caratteristico  del ragusano  a Pasqua è l’impanata di agnello, guscio di pasta di pane contenente pezzi di carne di agnello, prezzemolo, sale, pepe, olio. Casca il mondo ma deve essere impanata. Mai usate a casa nostra,  non conoscevamo questa tradizione, terribile per certi versi. Capitava quindi che il sabato santo anche la vecchia cucinava e facesse le impanate di agnello. Da sotto la porta di ingresso di casa sua, usciva, per poi penetrare dalla porta di ingresso di casa nostra, fino a entrare in tutte le stanze, un fetore nauseabondo di morte bollita, di carne di  pecorone con le ossa, una puzza immonda, da far venire il voltastomaco. Perché l’agnello di una volta non è come l’agnello di oggi, come le uova di una volta e le galline di una volta. Una volta l’uovo puzzava di uovo  e mia madre quando mangiavamo le uova i piatti me li faceva rilavare più volte, diceva sempre che le puzzavano di uovo. L’agnello di una volta puzzava di selvaggiume e con le ossa ancora di più. Comunque usciva questo fetore immondo da sotto la porta e mettendo insieme la vecchia, lo scialle, il figlio cupo e silenzioso, il figlio assassino e il fetore di morte, io, la cui parete della mia camera confinava con casa sua, ero terrorizzata e la  notte non dormivo perché temevo che il figlio della vecchia avesse potuto fare un buco nella parete ed entrare nella mia camera, assieme al fratello assassino, alla vecchia con lo scialle nero e mi imponevano di mangiare l’impanata di agnello. Per questo motivo fino a quando ho vissuto a casa dai miei non abbiamo mai,  e ribadisco mai, cucinato impanate di agnello, perché quel ricordo di tanfo e fetore era sempre nelle nostre menti  e nelle nostre narici.

Poi mi sono sposata e mia suocera mi ha fatto assaggiare le sue impanate di agnello, senza ossa, profumate, saporite. Una piacevole scoperta e sorpresa che ha cancellato il fetore del passato. Oggi anch’io come una vera ragusana, il sabato santo cucino le mie belle impanate. La vecchia e il suo strano figlio un giorno scomparvero nel nulla, lasciarono la casa arredata con tutti i mobili dentro e le suppellettili. Di loro non si seppe più nulla, restò di loro il ricordo della puzza delle loro impanate. Forse sono andati a impestare altra gente, forse il figlio medico ergastolano è uscito di galera perché innocente ed è venuto a riprenderseli per evitare che la puzza delle loro impanate uccidesse qualcuno.

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